giovedì 2 agosto 2012

La rinascita è dentro noi stessi

La mente umana è una esperienza divina. Carl Gustav Jung lo aveva compreso benissimo e infatti tutta la sua attività psicanalitica fu volta a conoscere e a trovare quel sottile filamento che collega la coscienza, l'inconscio e la realtà. Un connubio che porta l'essere umano ad essere un principio significativo e creativo solido e dai connotati che lui stesso definì oltreumani. L'Io è quel Dio che l'uomo cerca al di fuori di esso, una entità metafisica che le religioni (non tutte) hanno portato a identificare con fenomeni fuori dalla realtà stessa. Quel “regno di Dio” che è il fine dell'uomo, promesso da Cristo ai suoi discepoli e a tutti coloro che lo avrebbero seguito, è stato sempre visto come una dimensione metafisica che supera la finitezza umana. In realtà esso è vicino a noi: come lo gnosticismo lo psicanalista svizzero vedeva nel Regno di Dio il raggiungimento del Se, cioè la quiete e la maturità psichica ed etica. In questo modo il messaggio di Cristo avrebbe ritrovato quella carica umana e archetipica che le Chiese hanno smarrito, definendo “l'imitatio Christi” come solo un esercizio formale. L'etica cristiana avrebbe trovato sua attuazione solo cambiando se stessi. Jung non ha mai nascosto il suo interesse per la saggezza orientale come motivo di rinascita dell'occidente. Il pensiero religioso dell'estremo oriente aveva mantenuto intatte le sue forme e le sue dottrine dall'opera distruttiva dello scientismo e del razionalismo radicale. Ciò gli ha permesso di studiarle e di trovare come sia il cristianesimo che il buddismo o l'induismo mirino alla stesso fine: il Regno di Dio raggiungibile tramite un processo di individuazione. In esse vedeva la sintesi delle pratiche ipnotiche e psicanalitiche per giungere a quella completa assimilazione tra il principio ancestrale e archetipico e quello razionale e cosciente della personalità. L'uomo moderno, razionale e nichilista, soffre di costanti nevrosi che Jung definisce la conseguenza dell'aver messo a tacere la parte archetipica dell'Io, l'inconscio. Per cui i suoi contenuti, gli archetipi, sono diventati forme mostruose e criptiche le quali, manifestandosi nei sogni, rivelano un mondo che la modernità rifiuta come falsità. Nell'antichità al contrario gli archetipi erano oggetto di interesse perché rivelavano una dimensione platonica dell'esistenza che trovavano corrispondenza nei simboli e nei riti religiosi che non erano altro che razionalizzazioni di questi stessi. La religione ha la capacità per Jung di riassorbire questo conflitto psicologico e restituire all'uomo quel costante dialogo tra conscio e inconscio che gli è necessario per raggiungere il centro perfetto. Il principio del Tao ad esempio è il connubio/contrasto eterno tra due principi, Yin (femminile, passivo e freddo) e Yang (maschile, attivo e caldo). Da ciò nascerebbe la vita. Questi due poli si identificano con le due personalità umane, le quali cooperando e integrando, donano all'uomo la capacità di conoscere se stesso e di sviluppare quell'intuizione razionale che sta alla base della lettura dei significati della vita e del mondo. In questo modo il processo di individuazione viene portato al termine. L'individuo nasce se l'Io e l'Es, l'Animus e l'Anima si compenetrino stabilendo l'equilibrio necessario al benessere psicologico. L'individuazione, dice Jung, si manifesta in simboli religiosi come il Mandala, il cerchio rituale della tradizione buddista che i monaci tracciavano per ritrovare la pace psichica, o nelle scienze come l'Alchimia. Contemporaneamente le pratiche religiose e i riti ad essi connessi sono altrettanti esercizi per raggiungere tale beatitudine, che è poi il fine di ogni dottrina religiosa. Lo Yoga o gli esercizi spirituali di Ignazio di Loyola sono alcuni degli esempi che Jung ha ampiamente descritto. L'esperienza religiosa non è illusione o superstizione come vogliono i razionalisti radicali, ma si identifica con la funzione essenziale del nostro essere. La Fede non è altro che la spinta a ottenere questo equilibrio psichico per raggiungere l'Essere nella sua totalità.

venerdì 27 luglio 2012

Il guastafeste del politicamente corretto

Il "politicamente corretto" rovina sempre e comunque la festa. Ed è vero, visto che per evitare di urtare i sentimenti e le impressioni altrui si giunge sempre ad assumere un atteggiamento di rispetto generale, anche quando le idee non sono conformi alle nostre o sono del tutto sbagliate. Questo lassismo nella lotta politica, nei dibattiti pubblici, nella vita di tutti i giorni è un arma a doppio taglio: da un lato serve per costruire un aspetto di perbenismo e di tolleranza, dall'altro lato fornisce ai nostri interlocutori o avversari l'opportunità di evitare lo scontro e il confronto, trincerandosi nella tolleranza passiva. Assumere questo scuso di difesa certamente non giova alla soluzione dei problemi. Quando ci si pone di fronte alla questione dell'immigrazione ecco che il politically correct entra in scena. Oppure quando si parla della questione delle coppie di fatto non sono accettati confronti o idee che possano suscitare confronti. Bisogna tacere e rispettare passivamente il diverso per non essere tacciato di ignoranza e di intolleranza. Una dittatura che viene spesso fatta passare come l'unico e il più sicuro atteggiamento da tenere nei confronti degli altri. Basta critiche e basta confronti attivi. Il multiculturalismo è giusto e deve essere accettato per quello che è, altrimenti si è razzisti. Poi piangiamo sul latte versato quando si assistono a scene di intolleranza dovute ad una mancata integrazione o confronto tra le varie culture. Le coppie di fatto, altro punto controverso della politica internazionale, è un tabù per cui devono essere accettate per non turbare determinati ambienti che sono soliti reagire a critiche con urla e con dimostrazioni molto deplorevoli. Se si è contrari si è omofobi, parola molto in voga ormai. Per cui seppellite per sempre le asce di guerra e in base ad un presunto principio di libertà accettiamo tutto passivamente. Ecco perché il politicamente corretto è un guastafeste, perché toglie il succo, il divertimento alla politica e al dibattito culturale. L'affrontare temi caldi e questioni sociali di prima importanza sono momenti ormai di sconforto e di noia visto che sono vietate idee diverse e contrarie al soggetto della discussione. O si rispetta o si è contro. I dibattiti sono ridotti a scheletri. Una omologazione tenace e asfissiante investe tutti gli ambiti sociale. Ecco perché ormai si grida ai vecchi tenzoni verbali, alle scaramucce e al gusto della vittoria dialettica. Basta con il finto rispetto e con il confronto negato. E aggiungo anche basta con il perbenismo. Le cose vanno dette in faccia, non siamo ipocriti. Il succo delle discussioni sta proprio nel vincere dialetticamente. Senza di esse la nostra intelligenza perde una valida palestra e ammuffisce nella scatola cranica. Esprimere le proprie idee, anche se contrarie all'altro o al senso comune, non è mai un gesto negativo, come lo si vuole far passare. In questo modo si auspica che il dibattito politico e sociale possa un giorno diventare qualcosa di serio dove i problemi verranno affrontati in presa diretta, nella loro difficoltà. Vincere o essere sconfitti, questo è il bello dello scontro...verbale.

lunedì 9 luglio 2012

Capitalismo e Oppio

Il capitalismo occidentale porta morte e violenza dovunque ci siano ricchezze e opportunità di crescita. L'imperialismo europeo è stato la massima espressione di questo comportamento, determinando il ferimento e a volte la morte di interi popoli. Niente lo ha fermato e nel progredire nei suoi piani ha usato i mezzi più subdoli. La droga è uno di questi. Questo veleno sociale ha indebolito i popoli da colonizzare permettendo una facile penetrazione e un asservimento economico molto forte e difficile da sradicare.
Il Celeste Impero, il Grande Dragone o Cina era l'ultimo esempio di impero multiculturale, in piena decadenza e chiuso nel suo orgoglio millenario. Fu la vittima eccellente del connubio droga e capitalismo. Le dinastie che si successero al suo trono regnarono su popoli e terre diverse in tutto e riuscirono a tenerlo insieme nonostante le guerre civili e le invasioni straniere. L'occidente non rimase mai all'oscuro dell'esistenza del Celeste Impero. Fin dal duecento vi erano continui arrivi nelle corti italiani ed europee di ambascerie provenienti direttamente dalla Cina, ma anche di viaggi, come quello di Marco Polo, a scopi prettamente commerciali. Tra l'oriente e l'occidente quindi c'è sempre stata una forte sinergia contribuendo a importare ed esportare in entrambi le aeree in questione conoscenze e idee. Accadde che nel XVI secolo la dinastia Qing chiuse ogni confine ed impedì a qualunque straniero di mettere piede sul suolo imperiale. Le motivazioni della crisi di identità sono molte e principalmente dovute alla pressione sui confini orientali dei tartari e dei mongoli. La xenofobia distinse da questo momento in poi, fino all'inizio del XIX secolo, i cinesi dai suoi vicini. Il mondo progrediva e il Celeste Impero regrediva sempre di più. Gli occidentali, capitanati dagli inglesi, si stavano imbarcando nell'avventura coloniale spinti dal bisogno di mercati e di materie prime. In oriente gli europei non tardarono a occupare e a comprare dalle popolazioni indigene centri abitati e vaste porzioni di territorio. La Cina inevitabilmente fu costretta a incontrare di nuovo i suoi ex amici, quegli europei con i quali secoli prima aveva avuto un costante dialogo. Questa volta però i bianchi non proponevano amicizia ne conoscenze. Volevano mercati e materie prime, presupponendo nessun rifiuto o ostracismo imperiale. Il protocapitalismo europeo aveva bisogno di risorse per continuare a vivere e mercati per smerciare i suoi prodotti. Il colonialismo, secondo Karl Marx, è stata la molla che ha fatto sviluppare il capitalismo moderno, determinando quell'accumulo di ricchezze e quel mercato internazionale, che hanno portato alle due rivoluzioni industriali. La Cina dei Ming si rifiutò di aprirsi agli occidentali. Questi a loro volta premevano, ma i cinesi resistevano alle loro lusinghe. Nonostante i portoghesi e gli inglesi avessero delle basi commerciali sul suolo cinese, l'imperatore Yongzheng impose un forte protezionismo impedendo le importazioni e limitando le esportazioni, danneggiando gravemente i porti occupati dagli occidentali. Le potenze europee persero così una grande fetta di materie prime e di beni artigianali. Accadde che il capitalismo anglosassone sfruttò un veleno micidiale, l'Oppio, per sciogliere il guscio socio - economico. Nonostante il divieto imperiale la Compagnia delle Indie Orientali iniziò a importare in Cina, tramite i suoi porti, grandi quantità di oppio indiano. Gli effetti furono disastrosi. Il tasso di oppiomani aumentò costantemente e l'autorità imperiale di fronte a questo fenomeno si trovò impotente. Gli inglesi in questo modo tentarono di scardinare la fragile struttura sociale e istituzionale del Celeste Impero e approfittare per penetrare ancor di più nell'entroterra. Yongzheng non pote far altro che bloccare l'importazione di oppio. La guerra è l'arma del capitalismo per risolvere le problematiche interne ed internazionali e le sue crisi. E la crisi che si determinò non pote che sfociare in una serie di conflitti. La Cina e la Gran Bretagna si fronteggiarono in ben due Guerre dell'Oppio: la prima combattuta tra il 1839 e il 1842; la seconda tra il 1856 e il 1860. La Cina imperiale ne uscì profondamente umiliata. I cinesi dimostrarono la loro debolezza militare e le conseguenze belliche furono svantaggiose in tutti i sensi per i Qing. Il Trattato di Nanchino (1842) sancì ufficialmente la vittoria europea. Quel mostro del capitalismo occidentale aveva soddisfatto i suoi bisogni alimentari. La voracità del capitalismo occidentale aveva legittimato la distruzione sociale. Per vincere il più debole, per far valere il principio dell'uomo sull'uomo, non si sono fatti scrupoli nell'utilizzo dell'oppio per destabilizzare e ferire il tessuto sociale cinese. In questo modo da un lato si eliminò la sovraproduzione oppiacea in India, dall'altra a conquistare nuovi mercati, come Hong Kong. Ancora oggi ci si chiede se il problema della droga potrà un giorno mai essere risolto. Fin quando esso porterà profitto non sarà mai eliminato.

lunedì 2 luglio 2012

Una mancanza preoccupante!

Quando un dittatore cade lo si condanna di solito senza processo. La sua morte diviene il simbolo della ritrovata libertà e della pace sociale e politica che il dittatore aveva da sempre negato. Questo è accaduto per Mussolini, per Ceausescu e per molti atri tiranni che nel corso della storia si sono susseguiti. Ma la morte senza processo o comunque senza dibattito pubblico e libero porta i benefici sperati? Prendiamo come esempio la vicenda di Piazzale Loreto. La morte senza processo e la mostra del suo corpo in uno spazio pubblico doveva essere un atto di liberazione e di ammonimento da parte non di tutti gli italiani, ma solo di una frangia, della sinistra socialista e comunista. Di fatto i socialcomunisti da sempre in Italia hanno fondato una cultura politica e sociale fondata sul mito della Resistenza e sull'episodio di Piazzale Loreto che, a conti fatti, oggi è anacronistica. Il problema è proprio questo. Non tutti gli italiani hanno affrontato una catarsi politica. Una parte degli italiani è stata esclusa dalla catarsi. In questo modo, come disse Indro Montanelli, pochi hanno preso coscienza dell'importanza della democrazia e della negatività di ogni dittatura. Purtroppo non si può tornare indietro, ma è importante constatare questo fatto per evitare eventi del genere. Quando un dittatore viene deposto la prima cosa che si dovrebbe fare è quella di fare un processo pubblico, aperto a tutti, per discutere delle sue colpe. In questo modo la collettività partecipa al processo e tutti dimostrano il loro assenso o meno ad una condanna. L'importante è che ognuno, partecipando alla condanna, prenda coscienza del fatto che chiunque vada al governo si deve prendere le proprie responsabilità ed evitare ogni tentativo di tirannide. Lo stesso processo di Norimberga ebbe il torto di essere stato fatto solo dai vincitori, non dai vinti i quali avrebbero dovuto prender coscienza di quello che avevano creato. Una mancanza preoccupante.

sabato 30 giugno 2012

Il Brasile tra crescita e arretratezza

Il Brasile nel primo decennio del secondo millennio ha conosciuto uno sviluppo inimmaginabile seguito ad una crescita del Pil molto elevata. Oggi è considerato a tutti gli effetti una nazione che ha superato la soglia per entrare tra le grandi potenze economiche. Ha un Pil di 1900 trilioni di dollari che cresce ogni anno, dal 2006, del 7%. Fino a pochi decenni fa il paese sudamericano era considerato una nazione poverissima e non in grado di risollevarsi del tutto dalla stagnazione sociale ed economica. Il Brasile sembrava il tipico paese arretrato e attanagliato da un sistema sociale ed economico anacronistico e quindi incapace di sussistere senza gli aiuti internazionali. Al contrario San Paolo e le altre grandi megalopoli del paese sono diventate importanti centri finanziari e industriali. Ancora oggi purtroppo il Brasile pur crescendo vive un divario profondo tra passato e presente, tra latifondo e industrializzazione. Accanto ad una classe media sviluppata e metropolitana si trova una classe contadina povera e senza terra, oppressa dai latifondisti che controllano più del 50% delle terre coltivabili. Tra la fine del XX secolo e l'inizio del secondo millennio F.H. Cardoso e L.I.L. De Silva hanno portato il paese a diventare uno dei maggiori esportatori al mondo di prodotti agricoli. Nonostante questi successi il Brasile ha subito una forte recessione a causa dei debiti e della mal gestione della cosa pubblica. La repubblica sudamericana a partire dal 1998 vide in parte sfumare i propri successi. Da un lato il presidente Cardoso aprendo alla liberalizzazione indebolì il già fragile apparato statale; dall'altro lato la stagnazione come sempre comportò una crescente fuga di capitali all'estero, di conseguenza in mancanza di capitale Cardoso fu costretto ad indebitarsi pesantemente con il FMI (Fondo monetario internazionale). Il debito brasiliano ammontava a 41,5 miliardi di dollari, ma ancora oggi il Brasile non ha ancora saldato il suo credito. La rapacità del Fmi costò a Cordoso l'alienazione della popolazione brasiliana: le liberalizzazioni imposte dall'ente internazionale comportò la riduzione degli aiuti statali ad una popolazione che ancora vive nella maggioranza dei casi in una condizione di estrema povertà. Secondo i dati dell'Onu circa il 45% della popolazione brasiliana viveva in favelas, senza lavoro e senza assistenza. Nei primi anni duemila il Brasile versava in una condizione di pericolo sia sociale che economico. Le speranze di progresso sembravano essere sfumate. Ed ecco che in ogni situazione di dramma interviene un uomo o una donna che riporta la pace e la serenità. Il Brasile del presidente Lula, successore di Cardoso, non è ancora sereno e pacifico, anzi le tensioni sociali sono ancora vive, ma il presidente socialista ha aperto le strade per un possibile futuro di prosperità. Da un lato troviamo i contadini del MST (Movimento dei senza terra), una organizzazione non governativa che dagli anni settanti si occupa di dare terra ai contadini disoccupati attraverso occupazioni e marce pacifiche (sempre represse dalle forze dell'ordine). Il tutto appoggiati dall'area socialdemocratica del parlamento e da una attiva Chiesa Cattolica; dall'altro lato gli indios che da sempre rimproverano di essere costantemente marginalizzati dalla vita pubblica brasiliana. Lula venne eletto a pieni voti nel 2002. La sua politica è di chiara matrice socialista e si afferma soventemente che con questi il Brasile abbia svoltato nettamente a sinistra, rompendo con quel Fmi che da sempre opprime i paesi sudamericani. Per prima cosa Lula ha rotto con il Fondo monetario internazionale e con l'Alca, entrambi visti come forme di imperialismo nord americano. Da qui poi si è costruito un solido apparato statale volto a garantire una giustizia sociale che non ha rispettato le aspettative della popolazione più povera. Sostanzialmente Lula ha agito principalmente per eliminare la vasta sacca di povertà metropolitana. Le campagne infatti sono ancora avvolte nella cappa di oppressione ad opera dei latifondisti e di quegli organi statali che li fronteggiano. Gli episodi di repressione del Mst e di altri movimenti contadini sono molti e basta girare per internet per trovare una ricca letteratura. Lula sembra quasi impotente di fronte allo strapotere della borghesia agraria. Questo è una delle pecche maggiori del suo operato. Nel 2003 il presidente socialista ha istituito la "Bolla familia" che costituisce probabilmente il suo merito più grande. Il progetto, che ha avuto i risultati sperati, è un contributo monetario minimo che viene garantito ai non possidenti per vivere al di sopra dei limiti estremi di povertà. E' una strategia per ridurre la povertà estrema e per incentivare i consumi e l'istruzione. E' uno dei primi passi per un socialismo di mercato che potrà, forse, rendere grande il Brasile.

mercoledì 27 giugno 2012

Dante Alighieri: il poeta che cantò la laicità dello Stato e l'Italia unita

Quando si studia a scuola Dante lo si ritiene sempre noioso e antiquato. I tempi sono cambiati e il messaggio nonché gli stili della Commedia sembrano un retaggio del passato. Non vi si trova nei suoi scritti nessun elemento che possa riallacciarlo con la modernità, rendendolo il più possibile vicino a noi. In realtà pochi sanno che il poeta fiorentino è molto moderno, specie per quanto riguarda il pensiero politico: alcune delle sue idee lo portano inevitabilmente a connettersi con eventi accaduti nell'età moderna, ma che in fin dei conti sono state indirettamente causati dalle sue parole che li hanno anticipati. Soprattutto bisogna considerare che certe tesi, oggi in parte ancora in voga, nel XIII e XIV secolo erano impensabili, specie per un intellettuale impegnato come Dante (il quale a causa della sua militanza nei guelfi bianchi era stato costretto all'esilio). L'esimio poeta parlava e scriveva con certezza di laicità dello Stato e della necessità di dividere il potere temporale da quello spirituale. Argomenti che all'epoca dei discorsi erano tabù, soprattutto considerando il fatto che il Papato era una delle autorità che esercitava maggior influenza nella politica italiana dell'epoca. Per cui affermare certe idee era molto pericoloso. Altro aspetto che lo rende attuale è il fatto che il poeta fiorentino è stato il primo a parlare di unità della penisola italiana, anticipando e iniziando un dibattito che solo molti secoli dopo giungerà a risultati concreti. In effetti Dante ha anticipato i tempi parlando di un progetto che probabilmente tratteggiò come utopico e che alla fine si realizzò con tutti i dubbi e i problemi. Passiamo ai testi e in particolare all'opera politica incompiuta più nota del Dante: il "De Monarchia" (1312 - 1313). Nel terzo libro del trattato viene affrontata la questione della laicità dello Stato. Essendo un accurato osservatore politico, Dante non pote non osservare la decadenza della Chiesa Romana che lui diceva essere causa diretta del tentativo del Papa di attribuirsi quel potere temporale che in realtà non gli spetta. Occupandosi delle faccende terrene il Pontefice perde di vista quelle spirituali, causando il disorientamento della massa cristiana e dello stesso clero. Indi per cui è necessaria una netta separazione del potere spirituale da quello temporale che è proprio dell'Imperatore il quale deve necessariamente occuparsi delle faccende amministrative ed umane. La metafora dei due soli serve appunto per esplicitare questo concetto che all'epoca di Dante avrebbe una risonanza molto più ampia. Il Papa e l'Imperatore sono come il Sole e la Luna, cioè l'Imperatore riceve direttamente da Dio l'autorità a regnare e non dal Pontefice, il quale con la sua santità deve sancire questo fatto. Quindi in definitiva la luce del Sole che fa risplendere la Luna rappresenta l'investitura imperiale ad opera del successore di Pietro. La modernità del poeta è dettata anche da un altro fattore: Dante fu il primo a cantare la condizione di miseria e di divisione che attanagliava la penisola italica. Nel Canto Sesto del Purgatorio il poeta celebra l'Italia partendo dalla condizione di infelicità in cui si trova: divisa e sconquassata da continue guerre, senza trovare mai una pace solida e longeva. L'invito del poeta è quello di ritrovare quell'unità politica e culturale che un tempo aveva reso grande la nazione. Una visione della nostra nazione che per Dante era certamente illusoria. Soprattutto il poeta aveva intravisto nella sua epoca una certa unità culturale che avrebbe costituito una molla per la futura unificazione. Probabilmente non avrebbe mai immaginato che l'unità fosse un processo così difficile e così intricato da presentare diversi problemi 151 anni dopo la sua realizzazione. E si può in definitiva dire che Dante Alighieri è il nostro padre spirituale nonostante furono altri a concretizzare le sue aspirazioni. Ha anticipato i tempi e ha visto un progetto politico e culturale troppo maturo per i tempi in cui visse. 

giovedì 21 giugno 2012

Appunti di liberismo e liberalismo

Nel parlare di politica spesso si fa confusione nell'utilizzo di una terminologia esatta. Tra i tanti errori che si commettono vi è quello di usare in maniera impropria i termini "liberismo" e "liberalismo", spesso utilizzati come sinonimi. In questo articolo voglio chiarire l'origine di questi concetti e per quali motivi si differenziano. In comune vi è l'origine storica, essendo nati in epoche storiche analoghe, cioè tra settecento e ottocento, un lungo lasso di tempo ricco di trasformazioni radicali nella vita economica e sociale. Il liberismo è una dottrina economica che fonda le proprie idee sulla concezione del libero mercato, ovvero sull'autoregolazione dei mercati e sul disimpegno dello Stato nelle vicende economiche, sulla difesa della libera iniziativa e della proprietà privata. L'economia viene in questo modo depurata dallo statalismo socialista o protezionista e gli viene consentito di autoregolararsi e di regolare tutto ciò che le è connesso. Si viene a determinare un sistema economico aperto e globalizzato, fuori da ogni limitazione territoriale. All'apparenza un sistema solido, ma che in molti casi ha dimostrato quanto sia caotico e predatorio. Nell'Inghilterra del XIX secolo vennero teorizzate le prime teorie liberiste ad opera di Adam Smith in seguito ai vasti fenomeni sociali ed economici seguiti alla prima rivoluzione industriale. Nel novecento il comunismo e il fascismo posero in crisi il liberismo. La depressione degli ultimi anni dell'ottocento, la crisi del primo dopoguerra e quella del 1929 dimostrarono come affidare la vita di un paese al libero mercato fosse una mossa troppo azzardata. La ripresa economica seguita alla seconda guerra mondiale fece rinascere la fiducia nei mercati. Il neoliberismo sembrò essere l'ulteriore dimostrazione che, nonostante le crisi, il liberismo era la chiave del progresso. Le previsioni erano esatte?
Dovendo difendere la libertà di iniziativa e di proprietà privata bisognava garantire quei diritti e quelle libertà che permettessero lo sviluppo delle prime. Il liberalismo affonda le proprie radice nelle prime manifestazioni della borghesia. Questa classe sociale rivestiva una dinamicità che non poteva adattarsi alle strutture anacronistiche del sistema feudale e aristocratico. Il liberalismo di conseguenza fu l'arma sociale e politica attraverso la quale la borghesia si affermò come classe dominante. Da sempre si è caratterizzata come una filosofia e una dottrina politica individualista e basta sul concetto di libertà che lo Stato doveva garantire a tutti i suoi cittadini per realizzarsi compiutamente. Lo Stato di conseguenza doveva dotarsi di una Costituzione in cui fossero garantiti questi diritti e doveva convertirsi in una democrazia la quale permetteva al singolo di partecipare alle decisioni statali. L'evoluzione della democrazia e le sue diverse forme non sono materia di discussione in questo articolo. L'origine del liberismo risale all'illuminismo quando si ebbe maggiore coscienza dell'uomo e dei suoi diritti e doveri e di uno Stato che più essere un padrone doveva farsi protettore e padre amorevole dell'individuo, il quale partecipava a sua volta alle sue scelte. Ecco che troviamo autori quali Voltaire o Rousseau i quali difesero a spada tratta la liberal - democrazia e la libertà umana. Come accadde per il liberismo anche il liberalismo entrò in crisi di fronte alla instabilità della democrazia di fronte alle crisi e a guerre di lunga durata. Il novecento è stato il campo di prova della democrazia che ha potuto così dimostrarsi debole, ma nel contempo accattivante tanto da sfuggire alla damnatio memoriae dei regime totalitari che si sono susseguiti per decenni. Oggi si apre una nuova sfida. Saprà il liberismo e il liberalismo vincete le incertezze di un mondo sempre più globalizzato? Oppure la popolazione umana si assoggetterà a poteri autoritari, ma garanti di sicurezza?