sabato 16 giugno 2012

L'indifferenza è vigliaccheria

"L'indifferenza è vigliaccheria. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia." Questa frase non ha bisogno di presentazioni. Il suo autore è Antonio Gramsci, uno dei padri fondatori del Partito Comunista D'Italia (da non confondere con Pci). Comunista e intellettuale di un certo pregio, Gramsci fu impegnato in prima persona nelle vicende politiche e sociali del suo tempo. Ecco perché il suo invito a parteggiare nella vita per dare un senso ad essa e a non essere accusati di "indifferenza", una malattia che Gramsci definisce sociale. L'invito dell'intellettuale comunista è stato recepito? Al giorno d'oggi possiamo parlare di partigiani di qualsiasi linea politica? Possiamo rispondere a queste domande dicendo vi sono diversi approcci: l'impegnato, il generico, cioè la persona che vede tutto in generale, e l'indifferente. L'impegnato non necessita di presentazioni. Esiste un senso comune che spinge il singolo ad appoggiare idee e progetti indifferenziati, al di là del colore politico, che potrebbero dargli qualche vantaggio. Una visione della vita prettamente utilitarista. Non ci sono prese di posizione nette: comuniste, fasciste, anarchiche ecc. Troviamo solo discorsi generici sulla politica e sulla classe politica, spesso infarciti di rabbia e di sdegno verso la corruzione dilagante. Questo è il generico, cioè la persona che parteggia a seconda dei casi e dei vantaggi che può trarne. Questo male, possiamo chiamarlo così, ma che male non è nel senso vero della parola, è radicato quanto un altro di portata diversa. Stiamo parlando del disimpegnato, colui che è soggetto al reflusso, come lo hanno chiamato negli anni ottanta, o meglio all'indifferenza, che porta a negare l'impegno per il quieto vivere. Le tipiche espressioni del reflusso sono a noi note: "tutti i politici sono corrotti", "la politica la lasciamo fare a chi ne sa di più" e molte altre ancora. Espressioni che denotano un abbandono della cura di se e degli altri molto molto preoccupante. La vita viene penalizzata: non ha scopo o valore, si vive per sopravvivere. La lotta è esclusa e le emozioni e le idee ad essa connessa non si conoscono. Il disimpegno non cambia certo le cose. Lamentarsi e star fermi non agevola i buoni, ma i cattivi. Dire "la politica la lasciamo fare a chi ne sa di più" è un espediente per non provare a mettersi in gioco, perché la retorica e l'arte politica non sono innate, ma si apprendono. Non avere il coraggio di pronunciare la propria appartenenza politica o religiosa o filosofica, ad esempio, è una mancanza di coscienze dell'essere. Si ha paura del giudizio degli altri, altrettanto disimpegnati. Solo l'avere conta. Anche le scelte radicali non devono essere nascoste: dire sono fascista o comunista, cattolico o buddhista convinto, equivale a pronunciare la propria condanna a morte, a farsi definire estremista e antisociale, quando gli antisociali sono coloro che ci definiscono lontani dalla realtà. Quale realtà? Quella falsa e limpida dove la politica e i problemi sociali vengono estromessi?
A parlare è un partigiano, uno che ha deciso di parteggiare e di non vivere con le fette di prosciutto agli occhi. Gramsci, il tuo appello pochi lo hanno accolto.