giovedì 2 agosto 2012

La rinascita è dentro noi stessi

La mente umana è una esperienza divina. Carl Gustav Jung lo aveva compreso benissimo e infatti tutta la sua attività psicanalitica fu volta a conoscere e a trovare quel sottile filamento che collega la coscienza, l'inconscio e la realtà. Un connubio che porta l'essere umano ad essere un principio significativo e creativo solido e dai connotati che lui stesso definì oltreumani. L'Io è quel Dio che l'uomo cerca al di fuori di esso, una entità metafisica che le religioni (non tutte) hanno portato a identificare con fenomeni fuori dalla realtà stessa. Quel “regno di Dio” che è il fine dell'uomo, promesso da Cristo ai suoi discepoli e a tutti coloro che lo avrebbero seguito, è stato sempre visto come una dimensione metafisica che supera la finitezza umana. In realtà esso è vicino a noi: come lo gnosticismo lo psicanalista svizzero vedeva nel Regno di Dio il raggiungimento del Se, cioè la quiete e la maturità psichica ed etica. In questo modo il messaggio di Cristo avrebbe ritrovato quella carica umana e archetipica che le Chiese hanno smarrito, definendo “l'imitatio Christi” come solo un esercizio formale. L'etica cristiana avrebbe trovato sua attuazione solo cambiando se stessi. Jung non ha mai nascosto il suo interesse per la saggezza orientale come motivo di rinascita dell'occidente. Il pensiero religioso dell'estremo oriente aveva mantenuto intatte le sue forme e le sue dottrine dall'opera distruttiva dello scientismo e del razionalismo radicale. Ciò gli ha permesso di studiarle e di trovare come sia il cristianesimo che il buddismo o l'induismo mirino alla stesso fine: il Regno di Dio raggiungibile tramite un processo di individuazione. In esse vedeva la sintesi delle pratiche ipnotiche e psicanalitiche per giungere a quella completa assimilazione tra il principio ancestrale e archetipico e quello razionale e cosciente della personalità. L'uomo moderno, razionale e nichilista, soffre di costanti nevrosi che Jung definisce la conseguenza dell'aver messo a tacere la parte archetipica dell'Io, l'inconscio. Per cui i suoi contenuti, gli archetipi, sono diventati forme mostruose e criptiche le quali, manifestandosi nei sogni, rivelano un mondo che la modernità rifiuta come falsità. Nell'antichità al contrario gli archetipi erano oggetto di interesse perché rivelavano una dimensione platonica dell'esistenza che trovavano corrispondenza nei simboli e nei riti religiosi che non erano altro che razionalizzazioni di questi stessi. La religione ha la capacità per Jung di riassorbire questo conflitto psicologico e restituire all'uomo quel costante dialogo tra conscio e inconscio che gli è necessario per raggiungere il centro perfetto. Il principio del Tao ad esempio è il connubio/contrasto eterno tra due principi, Yin (femminile, passivo e freddo) e Yang (maschile, attivo e caldo). Da ciò nascerebbe la vita. Questi due poli si identificano con le due personalità umane, le quali cooperando e integrando, donano all'uomo la capacità di conoscere se stesso e di sviluppare quell'intuizione razionale che sta alla base della lettura dei significati della vita e del mondo. In questo modo il processo di individuazione viene portato al termine. L'individuo nasce se l'Io e l'Es, l'Animus e l'Anima si compenetrino stabilendo l'equilibrio necessario al benessere psicologico. L'individuazione, dice Jung, si manifesta in simboli religiosi come il Mandala, il cerchio rituale della tradizione buddista che i monaci tracciavano per ritrovare la pace psichica, o nelle scienze come l'Alchimia. Contemporaneamente le pratiche religiose e i riti ad essi connessi sono altrettanti esercizi per raggiungere tale beatitudine, che è poi il fine di ogni dottrina religiosa. Lo Yoga o gli esercizi spirituali di Ignazio di Loyola sono alcuni degli esempi che Jung ha ampiamente descritto. L'esperienza religiosa non è illusione o superstizione come vogliono i razionalisti radicali, ma si identifica con la funzione essenziale del nostro essere. La Fede non è altro che la spinta a ottenere questo equilibrio psichico per raggiungere l'Essere nella sua totalità.

venerdì 27 luglio 2012

Il guastafeste del politicamente corretto

Il "politicamente corretto" rovina sempre e comunque la festa. Ed è vero, visto che per evitare di urtare i sentimenti e le impressioni altrui si giunge sempre ad assumere un atteggiamento di rispetto generale, anche quando le idee non sono conformi alle nostre o sono del tutto sbagliate. Questo lassismo nella lotta politica, nei dibattiti pubblici, nella vita di tutti i giorni è un arma a doppio taglio: da un lato serve per costruire un aspetto di perbenismo e di tolleranza, dall'altro lato fornisce ai nostri interlocutori o avversari l'opportunità di evitare lo scontro e il confronto, trincerandosi nella tolleranza passiva. Assumere questo scuso di difesa certamente non giova alla soluzione dei problemi. Quando ci si pone di fronte alla questione dell'immigrazione ecco che il politically correct entra in scena. Oppure quando si parla della questione delle coppie di fatto non sono accettati confronti o idee che possano suscitare confronti. Bisogna tacere e rispettare passivamente il diverso per non essere tacciato di ignoranza e di intolleranza. Una dittatura che viene spesso fatta passare come l'unico e il più sicuro atteggiamento da tenere nei confronti degli altri. Basta critiche e basta confronti attivi. Il multiculturalismo è giusto e deve essere accettato per quello che è, altrimenti si è razzisti. Poi piangiamo sul latte versato quando si assistono a scene di intolleranza dovute ad una mancata integrazione o confronto tra le varie culture. Le coppie di fatto, altro punto controverso della politica internazionale, è un tabù per cui devono essere accettate per non turbare determinati ambienti che sono soliti reagire a critiche con urla e con dimostrazioni molto deplorevoli. Se si è contrari si è omofobi, parola molto in voga ormai. Per cui seppellite per sempre le asce di guerra e in base ad un presunto principio di libertà accettiamo tutto passivamente. Ecco perché il politicamente corretto è un guastafeste, perché toglie il succo, il divertimento alla politica e al dibattito culturale. L'affrontare temi caldi e questioni sociali di prima importanza sono momenti ormai di sconforto e di noia visto che sono vietate idee diverse e contrarie al soggetto della discussione. O si rispetta o si è contro. I dibattiti sono ridotti a scheletri. Una omologazione tenace e asfissiante investe tutti gli ambiti sociale. Ecco perché ormai si grida ai vecchi tenzoni verbali, alle scaramucce e al gusto della vittoria dialettica. Basta con il finto rispetto e con il confronto negato. E aggiungo anche basta con il perbenismo. Le cose vanno dette in faccia, non siamo ipocriti. Il succo delle discussioni sta proprio nel vincere dialetticamente. Senza di esse la nostra intelligenza perde una valida palestra e ammuffisce nella scatola cranica. Esprimere le proprie idee, anche se contrarie all'altro o al senso comune, non è mai un gesto negativo, come lo si vuole far passare. In questo modo si auspica che il dibattito politico e sociale possa un giorno diventare qualcosa di serio dove i problemi verranno affrontati in presa diretta, nella loro difficoltà. Vincere o essere sconfitti, questo è il bello dello scontro...verbale.

lunedì 9 luglio 2012

Capitalismo e Oppio

Il capitalismo occidentale porta morte e violenza dovunque ci siano ricchezze e opportunità di crescita. L'imperialismo europeo è stato la massima espressione di questo comportamento, determinando il ferimento e a volte la morte di interi popoli. Niente lo ha fermato e nel progredire nei suoi piani ha usato i mezzi più subdoli. La droga è uno di questi. Questo veleno sociale ha indebolito i popoli da colonizzare permettendo una facile penetrazione e un asservimento economico molto forte e difficile da sradicare.
Il Celeste Impero, il Grande Dragone o Cina era l'ultimo esempio di impero multiculturale, in piena decadenza e chiuso nel suo orgoglio millenario. Fu la vittima eccellente del connubio droga e capitalismo. Le dinastie che si successero al suo trono regnarono su popoli e terre diverse in tutto e riuscirono a tenerlo insieme nonostante le guerre civili e le invasioni straniere. L'occidente non rimase mai all'oscuro dell'esistenza del Celeste Impero. Fin dal duecento vi erano continui arrivi nelle corti italiani ed europee di ambascerie provenienti direttamente dalla Cina, ma anche di viaggi, come quello di Marco Polo, a scopi prettamente commerciali. Tra l'oriente e l'occidente quindi c'è sempre stata una forte sinergia contribuendo a importare ed esportare in entrambi le aeree in questione conoscenze e idee. Accadde che nel XVI secolo la dinastia Qing chiuse ogni confine ed impedì a qualunque straniero di mettere piede sul suolo imperiale. Le motivazioni della crisi di identità sono molte e principalmente dovute alla pressione sui confini orientali dei tartari e dei mongoli. La xenofobia distinse da questo momento in poi, fino all'inizio del XIX secolo, i cinesi dai suoi vicini. Il mondo progrediva e il Celeste Impero regrediva sempre di più. Gli occidentali, capitanati dagli inglesi, si stavano imbarcando nell'avventura coloniale spinti dal bisogno di mercati e di materie prime. In oriente gli europei non tardarono a occupare e a comprare dalle popolazioni indigene centri abitati e vaste porzioni di territorio. La Cina inevitabilmente fu costretta a incontrare di nuovo i suoi ex amici, quegli europei con i quali secoli prima aveva avuto un costante dialogo. Questa volta però i bianchi non proponevano amicizia ne conoscenze. Volevano mercati e materie prime, presupponendo nessun rifiuto o ostracismo imperiale. Il protocapitalismo europeo aveva bisogno di risorse per continuare a vivere e mercati per smerciare i suoi prodotti. Il colonialismo, secondo Karl Marx, è stata la molla che ha fatto sviluppare il capitalismo moderno, determinando quell'accumulo di ricchezze e quel mercato internazionale, che hanno portato alle due rivoluzioni industriali. La Cina dei Ming si rifiutò di aprirsi agli occidentali. Questi a loro volta premevano, ma i cinesi resistevano alle loro lusinghe. Nonostante i portoghesi e gli inglesi avessero delle basi commerciali sul suolo cinese, l'imperatore Yongzheng impose un forte protezionismo impedendo le importazioni e limitando le esportazioni, danneggiando gravemente i porti occupati dagli occidentali. Le potenze europee persero così una grande fetta di materie prime e di beni artigianali. Accadde che il capitalismo anglosassone sfruttò un veleno micidiale, l'Oppio, per sciogliere il guscio socio - economico. Nonostante il divieto imperiale la Compagnia delle Indie Orientali iniziò a importare in Cina, tramite i suoi porti, grandi quantità di oppio indiano. Gli effetti furono disastrosi. Il tasso di oppiomani aumentò costantemente e l'autorità imperiale di fronte a questo fenomeno si trovò impotente. Gli inglesi in questo modo tentarono di scardinare la fragile struttura sociale e istituzionale del Celeste Impero e approfittare per penetrare ancor di più nell'entroterra. Yongzheng non pote far altro che bloccare l'importazione di oppio. La guerra è l'arma del capitalismo per risolvere le problematiche interne ed internazionali e le sue crisi. E la crisi che si determinò non pote che sfociare in una serie di conflitti. La Cina e la Gran Bretagna si fronteggiarono in ben due Guerre dell'Oppio: la prima combattuta tra il 1839 e il 1842; la seconda tra il 1856 e il 1860. La Cina imperiale ne uscì profondamente umiliata. I cinesi dimostrarono la loro debolezza militare e le conseguenze belliche furono svantaggiose in tutti i sensi per i Qing. Il Trattato di Nanchino (1842) sancì ufficialmente la vittoria europea. Quel mostro del capitalismo occidentale aveva soddisfatto i suoi bisogni alimentari. La voracità del capitalismo occidentale aveva legittimato la distruzione sociale. Per vincere il più debole, per far valere il principio dell'uomo sull'uomo, non si sono fatti scrupoli nell'utilizzo dell'oppio per destabilizzare e ferire il tessuto sociale cinese. In questo modo da un lato si eliminò la sovraproduzione oppiacea in India, dall'altra a conquistare nuovi mercati, come Hong Kong. Ancora oggi ci si chiede se il problema della droga potrà un giorno mai essere risolto. Fin quando esso porterà profitto non sarà mai eliminato.

lunedì 2 luglio 2012

Una mancanza preoccupante!

Quando un dittatore cade lo si condanna di solito senza processo. La sua morte diviene il simbolo della ritrovata libertà e della pace sociale e politica che il dittatore aveva da sempre negato. Questo è accaduto per Mussolini, per Ceausescu e per molti atri tiranni che nel corso della storia si sono susseguiti. Ma la morte senza processo o comunque senza dibattito pubblico e libero porta i benefici sperati? Prendiamo come esempio la vicenda di Piazzale Loreto. La morte senza processo e la mostra del suo corpo in uno spazio pubblico doveva essere un atto di liberazione e di ammonimento da parte non di tutti gli italiani, ma solo di una frangia, della sinistra socialista e comunista. Di fatto i socialcomunisti da sempre in Italia hanno fondato una cultura politica e sociale fondata sul mito della Resistenza e sull'episodio di Piazzale Loreto che, a conti fatti, oggi è anacronistica. Il problema è proprio questo. Non tutti gli italiani hanno affrontato una catarsi politica. Una parte degli italiani è stata esclusa dalla catarsi. In questo modo, come disse Indro Montanelli, pochi hanno preso coscienza dell'importanza della democrazia e della negatività di ogni dittatura. Purtroppo non si può tornare indietro, ma è importante constatare questo fatto per evitare eventi del genere. Quando un dittatore viene deposto la prima cosa che si dovrebbe fare è quella di fare un processo pubblico, aperto a tutti, per discutere delle sue colpe. In questo modo la collettività partecipa al processo e tutti dimostrano il loro assenso o meno ad una condanna. L'importante è che ognuno, partecipando alla condanna, prenda coscienza del fatto che chiunque vada al governo si deve prendere le proprie responsabilità ed evitare ogni tentativo di tirannide. Lo stesso processo di Norimberga ebbe il torto di essere stato fatto solo dai vincitori, non dai vinti i quali avrebbero dovuto prender coscienza di quello che avevano creato. Una mancanza preoccupante.

sabato 30 giugno 2012

Il Brasile tra crescita e arretratezza

Il Brasile nel primo decennio del secondo millennio ha conosciuto uno sviluppo inimmaginabile seguito ad una crescita del Pil molto elevata. Oggi è considerato a tutti gli effetti una nazione che ha superato la soglia per entrare tra le grandi potenze economiche. Ha un Pil di 1900 trilioni di dollari che cresce ogni anno, dal 2006, del 7%. Fino a pochi decenni fa il paese sudamericano era considerato una nazione poverissima e non in grado di risollevarsi del tutto dalla stagnazione sociale ed economica. Il Brasile sembrava il tipico paese arretrato e attanagliato da un sistema sociale ed economico anacronistico e quindi incapace di sussistere senza gli aiuti internazionali. Al contrario San Paolo e le altre grandi megalopoli del paese sono diventate importanti centri finanziari e industriali. Ancora oggi purtroppo il Brasile pur crescendo vive un divario profondo tra passato e presente, tra latifondo e industrializzazione. Accanto ad una classe media sviluppata e metropolitana si trova una classe contadina povera e senza terra, oppressa dai latifondisti che controllano più del 50% delle terre coltivabili. Tra la fine del XX secolo e l'inizio del secondo millennio F.H. Cardoso e L.I.L. De Silva hanno portato il paese a diventare uno dei maggiori esportatori al mondo di prodotti agricoli. Nonostante questi successi il Brasile ha subito una forte recessione a causa dei debiti e della mal gestione della cosa pubblica. La repubblica sudamericana a partire dal 1998 vide in parte sfumare i propri successi. Da un lato il presidente Cardoso aprendo alla liberalizzazione indebolì il già fragile apparato statale; dall'altro lato la stagnazione come sempre comportò una crescente fuga di capitali all'estero, di conseguenza in mancanza di capitale Cardoso fu costretto ad indebitarsi pesantemente con il FMI (Fondo monetario internazionale). Il debito brasiliano ammontava a 41,5 miliardi di dollari, ma ancora oggi il Brasile non ha ancora saldato il suo credito. La rapacità del Fmi costò a Cordoso l'alienazione della popolazione brasiliana: le liberalizzazioni imposte dall'ente internazionale comportò la riduzione degli aiuti statali ad una popolazione che ancora vive nella maggioranza dei casi in una condizione di estrema povertà. Secondo i dati dell'Onu circa il 45% della popolazione brasiliana viveva in favelas, senza lavoro e senza assistenza. Nei primi anni duemila il Brasile versava in una condizione di pericolo sia sociale che economico. Le speranze di progresso sembravano essere sfumate. Ed ecco che in ogni situazione di dramma interviene un uomo o una donna che riporta la pace e la serenità. Il Brasile del presidente Lula, successore di Cardoso, non è ancora sereno e pacifico, anzi le tensioni sociali sono ancora vive, ma il presidente socialista ha aperto le strade per un possibile futuro di prosperità. Da un lato troviamo i contadini del MST (Movimento dei senza terra), una organizzazione non governativa che dagli anni settanti si occupa di dare terra ai contadini disoccupati attraverso occupazioni e marce pacifiche (sempre represse dalle forze dell'ordine). Il tutto appoggiati dall'area socialdemocratica del parlamento e da una attiva Chiesa Cattolica; dall'altro lato gli indios che da sempre rimproverano di essere costantemente marginalizzati dalla vita pubblica brasiliana. Lula venne eletto a pieni voti nel 2002. La sua politica è di chiara matrice socialista e si afferma soventemente che con questi il Brasile abbia svoltato nettamente a sinistra, rompendo con quel Fmi che da sempre opprime i paesi sudamericani. Per prima cosa Lula ha rotto con il Fondo monetario internazionale e con l'Alca, entrambi visti come forme di imperialismo nord americano. Da qui poi si è costruito un solido apparato statale volto a garantire una giustizia sociale che non ha rispettato le aspettative della popolazione più povera. Sostanzialmente Lula ha agito principalmente per eliminare la vasta sacca di povertà metropolitana. Le campagne infatti sono ancora avvolte nella cappa di oppressione ad opera dei latifondisti e di quegli organi statali che li fronteggiano. Gli episodi di repressione del Mst e di altri movimenti contadini sono molti e basta girare per internet per trovare una ricca letteratura. Lula sembra quasi impotente di fronte allo strapotere della borghesia agraria. Questo è una delle pecche maggiori del suo operato. Nel 2003 il presidente socialista ha istituito la "Bolla familia" che costituisce probabilmente il suo merito più grande. Il progetto, che ha avuto i risultati sperati, è un contributo monetario minimo che viene garantito ai non possidenti per vivere al di sopra dei limiti estremi di povertà. E' una strategia per ridurre la povertà estrema e per incentivare i consumi e l'istruzione. E' uno dei primi passi per un socialismo di mercato che potrà, forse, rendere grande il Brasile.

mercoledì 27 giugno 2012

Dante Alighieri: il poeta che cantò la laicità dello Stato e l'Italia unita

Quando si studia a scuola Dante lo si ritiene sempre noioso e antiquato. I tempi sono cambiati e il messaggio nonché gli stili della Commedia sembrano un retaggio del passato. Non vi si trova nei suoi scritti nessun elemento che possa riallacciarlo con la modernità, rendendolo il più possibile vicino a noi. In realtà pochi sanno che il poeta fiorentino è molto moderno, specie per quanto riguarda il pensiero politico: alcune delle sue idee lo portano inevitabilmente a connettersi con eventi accaduti nell'età moderna, ma che in fin dei conti sono state indirettamente causati dalle sue parole che li hanno anticipati. Soprattutto bisogna considerare che certe tesi, oggi in parte ancora in voga, nel XIII e XIV secolo erano impensabili, specie per un intellettuale impegnato come Dante (il quale a causa della sua militanza nei guelfi bianchi era stato costretto all'esilio). L'esimio poeta parlava e scriveva con certezza di laicità dello Stato e della necessità di dividere il potere temporale da quello spirituale. Argomenti che all'epoca dei discorsi erano tabù, soprattutto considerando il fatto che il Papato era una delle autorità che esercitava maggior influenza nella politica italiana dell'epoca. Per cui affermare certe idee era molto pericoloso. Altro aspetto che lo rende attuale è il fatto che il poeta fiorentino è stato il primo a parlare di unità della penisola italiana, anticipando e iniziando un dibattito che solo molti secoli dopo giungerà a risultati concreti. In effetti Dante ha anticipato i tempi parlando di un progetto che probabilmente tratteggiò come utopico e che alla fine si realizzò con tutti i dubbi e i problemi. Passiamo ai testi e in particolare all'opera politica incompiuta più nota del Dante: il "De Monarchia" (1312 - 1313). Nel terzo libro del trattato viene affrontata la questione della laicità dello Stato. Essendo un accurato osservatore politico, Dante non pote non osservare la decadenza della Chiesa Romana che lui diceva essere causa diretta del tentativo del Papa di attribuirsi quel potere temporale che in realtà non gli spetta. Occupandosi delle faccende terrene il Pontefice perde di vista quelle spirituali, causando il disorientamento della massa cristiana e dello stesso clero. Indi per cui è necessaria una netta separazione del potere spirituale da quello temporale che è proprio dell'Imperatore il quale deve necessariamente occuparsi delle faccende amministrative ed umane. La metafora dei due soli serve appunto per esplicitare questo concetto che all'epoca di Dante avrebbe una risonanza molto più ampia. Il Papa e l'Imperatore sono come il Sole e la Luna, cioè l'Imperatore riceve direttamente da Dio l'autorità a regnare e non dal Pontefice, il quale con la sua santità deve sancire questo fatto. Quindi in definitiva la luce del Sole che fa risplendere la Luna rappresenta l'investitura imperiale ad opera del successore di Pietro. La modernità del poeta è dettata anche da un altro fattore: Dante fu il primo a cantare la condizione di miseria e di divisione che attanagliava la penisola italica. Nel Canto Sesto del Purgatorio il poeta celebra l'Italia partendo dalla condizione di infelicità in cui si trova: divisa e sconquassata da continue guerre, senza trovare mai una pace solida e longeva. L'invito del poeta è quello di ritrovare quell'unità politica e culturale che un tempo aveva reso grande la nazione. Una visione della nostra nazione che per Dante era certamente illusoria. Soprattutto il poeta aveva intravisto nella sua epoca una certa unità culturale che avrebbe costituito una molla per la futura unificazione. Probabilmente non avrebbe mai immaginato che l'unità fosse un processo così difficile e così intricato da presentare diversi problemi 151 anni dopo la sua realizzazione. E si può in definitiva dire che Dante Alighieri è il nostro padre spirituale nonostante furono altri a concretizzare le sue aspirazioni. Ha anticipato i tempi e ha visto un progetto politico e culturale troppo maturo per i tempi in cui visse. 

giovedì 21 giugno 2012

Appunti di liberismo e liberalismo

Nel parlare di politica spesso si fa confusione nell'utilizzo di una terminologia esatta. Tra i tanti errori che si commettono vi è quello di usare in maniera impropria i termini "liberismo" e "liberalismo", spesso utilizzati come sinonimi. In questo articolo voglio chiarire l'origine di questi concetti e per quali motivi si differenziano. In comune vi è l'origine storica, essendo nati in epoche storiche analoghe, cioè tra settecento e ottocento, un lungo lasso di tempo ricco di trasformazioni radicali nella vita economica e sociale. Il liberismo è una dottrina economica che fonda le proprie idee sulla concezione del libero mercato, ovvero sull'autoregolazione dei mercati e sul disimpegno dello Stato nelle vicende economiche, sulla difesa della libera iniziativa e della proprietà privata. L'economia viene in questo modo depurata dallo statalismo socialista o protezionista e gli viene consentito di autoregolararsi e di regolare tutto ciò che le è connesso. Si viene a determinare un sistema economico aperto e globalizzato, fuori da ogni limitazione territoriale. All'apparenza un sistema solido, ma che in molti casi ha dimostrato quanto sia caotico e predatorio. Nell'Inghilterra del XIX secolo vennero teorizzate le prime teorie liberiste ad opera di Adam Smith in seguito ai vasti fenomeni sociali ed economici seguiti alla prima rivoluzione industriale. Nel novecento il comunismo e il fascismo posero in crisi il liberismo. La depressione degli ultimi anni dell'ottocento, la crisi del primo dopoguerra e quella del 1929 dimostrarono come affidare la vita di un paese al libero mercato fosse una mossa troppo azzardata. La ripresa economica seguita alla seconda guerra mondiale fece rinascere la fiducia nei mercati. Il neoliberismo sembrò essere l'ulteriore dimostrazione che, nonostante le crisi, il liberismo era la chiave del progresso. Le previsioni erano esatte?
Dovendo difendere la libertà di iniziativa e di proprietà privata bisognava garantire quei diritti e quelle libertà che permettessero lo sviluppo delle prime. Il liberalismo affonda le proprie radice nelle prime manifestazioni della borghesia. Questa classe sociale rivestiva una dinamicità che non poteva adattarsi alle strutture anacronistiche del sistema feudale e aristocratico. Il liberalismo di conseguenza fu l'arma sociale e politica attraverso la quale la borghesia si affermò come classe dominante. Da sempre si è caratterizzata come una filosofia e una dottrina politica individualista e basta sul concetto di libertà che lo Stato doveva garantire a tutti i suoi cittadini per realizzarsi compiutamente. Lo Stato di conseguenza doveva dotarsi di una Costituzione in cui fossero garantiti questi diritti e doveva convertirsi in una democrazia la quale permetteva al singolo di partecipare alle decisioni statali. L'evoluzione della democrazia e le sue diverse forme non sono materia di discussione in questo articolo. L'origine del liberismo risale all'illuminismo quando si ebbe maggiore coscienza dell'uomo e dei suoi diritti e doveri e di uno Stato che più essere un padrone doveva farsi protettore e padre amorevole dell'individuo, il quale partecipava a sua volta alle sue scelte. Ecco che troviamo autori quali Voltaire o Rousseau i quali difesero a spada tratta la liberal - democrazia e la libertà umana. Come accadde per il liberismo anche il liberalismo entrò in crisi di fronte alla instabilità della democrazia di fronte alle crisi e a guerre di lunga durata. Il novecento è stato il campo di prova della democrazia che ha potuto così dimostrarsi debole, ma nel contempo accattivante tanto da sfuggire alla damnatio memoriae dei regime totalitari che si sono susseguiti per decenni. Oggi si apre una nuova sfida. Saprà il liberismo e il liberalismo vincete le incertezze di un mondo sempre più globalizzato? Oppure la popolazione umana si assoggetterà a poteri autoritari, ma garanti di sicurezza?

mercoledì 20 giugno 2012

Nestor Machno: il rifiuto dello Stato

Nel fermento politico e sociale dell'Europa dell'est si produssero spinte rivoluzionarie che portarono al radicale cambiamento della società, scardinando gli elementi feudali e aristocratici che ancora esistevano in quelle nazioni nei primi anni del novecento. Le masse contadine e proletarie avevano dimostrato tutta la loro rabbia verso i soprusi che dovevano quotidianamente sopportare. Ecco perché le idee del socialismo rivoluzionario non tardarono a diffondersi e a catturare la forza combattiva delle masse povere. In particolar modo l'anarchismo, a differenza del comunismo, ebbe una diffusione capillare tra la classe operaia e contadina, la quale garantiva una totale liberazione da ogni potere autoritario e elitario. La popolazione slava in generale ebbe grandi simpatie per il movimento anarchico. Il comunismo dovette lavorare molto di propagande per riuscire a far breccia nelle menti di queste popolazioni. La classe proletaria e contadina, stanca della prepotenza dei kulaki, vide nelle figure di Nestor Machno e Petr Arsinov una soluzione ai loro problemi. Specie Machno con il suo carisma e con il suo ardore rivoluzionario fu il protagonista principale della rivoluzione ucraina che seguì a quella russa del 1917. In quell'anno Machno, rilasciato dal carcere dopo la rivoluzione di febbraio, iniziò a organizzare i contadini e i proletari in una serie di soviet per dirigere al meglio le manovre rivoluzionarie. Come prima mossa venne respinta ogni possibile trattativa con la borghesia. Successivamente a partire da città di Huljajpole furono espropriati tutte le terre dei latifondisti e create una serie di comuni agricole che si diffusero a macchia d'olio per tutto il paese. Queste erano comunità autonome basate sulla totale uguaglianza dei suoi membri, le quali poi a loro volta interagivano tra di loro a livello locale e regionale e raramente nazionale. La propaganda comunista tentò più volte di penetrare all'interno dei soviet per riorganizzarli in base al modello bolscevico. I tentativi fallirono visto l'intransigenza anarchica e l'odio che la massa contadina e operaia aveva nei confronti di ogni autorità statale, specie quella dittatura del proletariato che vedevano come un altra forma di oppressione. Le collettivizzazione politiche ed economiche si rafforzarono e questo aumentò il disappunto non solo della borghesia, ma anche dei comunisti che da sempre non vedevano di buon occhio i progetti anarchici. Con il trattato di Brest - Litovsk Lenin cedette una parte dell'Ucraina agli austro - tedeschi i quali non tardarono a reprimere la confederazione contadina e operaia. Gli anarchici non tardarono a reagire all'aggressione tedesca e comunista. Venne organizzata la Machnovscina, un esercito popolare guidato dallo stesso Machno e basato sui principi democratici che distinsero anche le truppe anarchiche in Spagna. La guerriglia fu la metodologia che gli anarchici usufruirono al meglio per ostacolare l'avanzata tedesca e nel contempo l'Armata bianca che era intervenuta a sostegno dell'esercito invasore. Trozkij fu tra i principali sostenitori dell'invasione dell'Ucraina da parte dell'Armata Bianca convinto che il progetto anarchico dovesse essere distrutto per evitare facesse troppi proseliti. La presa di posizione del leader bolscevico stona con quello che accadde in Spagna dove i trozkisti si allearono con gli anarchici contro la repubblica e il franchismo. I nemici non erano solo esterni, ma anche interni: tra settembre e ottobre del 1918 l'esercito popolare dovette affrontare la Petliura, un movimento estrema destra sostenuto dalla borghesia reazionaria. Nel frattempo Machno e un gruppo di rappresentanti della confederazione anarchica nel 1920 si recarono a Mosca per ottenere aiuti dagli anarchici russi e da Lenin stesso. Ciò che l'anarchico ucraino vide lo sconvolse: la polizia segreta comunista aveva iniziato a reprimere il movimento anarchico e i colloqui con Lenin non giunsero a nessuna conclusione. Le divergenza tra comunisti e anarchici erano troppo profonda per cui la delegazione ucraina dovette tornare in patria senza alcun risultato. In un solo anno di guerra la confederazione anarchica riportò su più fronti grandi vittorie, ma, per la mancanza di armi e per il numero esiguo di uomini, dovette cedere di fronte all'avanzata dell'Armata rossa.

martedì 19 giugno 2012

NAMBLA ovvero "Sexual freedon for all"

Quando la barbarie viene spacciata per civiltà, la prima prende il nome di NAMBLA. L'acronimo non dice nulla ai più, ma la sua storia è stata oggetto di critiche e di censure. Il North American Man/Boy Love Association (Associazione Nord Americana dell'Amore tra Uomini e Ragazzi) è una associazione nata negli anni settanta per chiedere l'abolizione delle leggi a tutela dei minori e la legalizzazione dei rapporti sessuali tra uomini e minorenni di sesso maschile. In sostanza chiedo l'abbassamento dell'età del consenso, per non essere tacciati di pedofilia. Nel clima anticonformista americano una proposta del genere non poteva che trovare ampio accoglimento nella massa incosciente e libertaria del movimento di rinnovamento. NAMBLA è rinnovamento o semplice disumanità? Oggi siamo certi che se queste proposte fossero state fatte al giorno d'oggi, sicuramente avrebbero trovato la nostra piena ostilità. Una prima bozza delle idee che sono alla base di questa organizzazione venne stilata probabilmente nel 1969 quando diversi gruppi omosessuali iniziarono a discutere sul sesso tra adulti e minori connesso con la loro emancipazione sociale. Nel 1977 queste riflessioni giunsero alla ribalta nell'opinione pubblica quando la polizia fece irruzione nella sede della rivista "The Body Politic", una rivista omosessuale, dove qualche tempo prima era stato pubblicato un articolo intitola "Men loving boys loving men" (Uomini che amano ragazzi che amano uomini). Nell'articolo il suo autore parlava liberamente della possibilità di avere rapporti con maschi di minore età se lo Stato avesse ridimensionato l'età del consenso. A complicare le cose si aggiunse anche la retata del dicembre di quell'anno quando la polizia fece irruzione in una casa privata nel quartiere di Revere, Boston, arrestando ventiquattro uomini con l'accusa di pedofilia. Si venne a scoprire l'esistenza di un meccanismo di adescamento attraverso il quale i ragazzi venivano invogliati ad avere rapporti in cambio di droga e videogiochi. A testimoniare questi atti ci furono una serie di foto scattate durante gli adescamenti o addirittura durante i rapporti sessuali. Il mondo gay reagì alla retata di Revere con sdegno parlando di cospirazione ai danni della comunità omosessuale. La rivista omosessuale Fag Rag fu in prima linea nell'accusare le autorità di omofobia. Vennero così organizzate manifestazioni e comitati per la difesa degli imputati. La sensibilizzazione dell'opinione pubblica fu così efficacie che il procuratore Garrett Byrne fu sconfitto nelle elezioni di riconferma e il nuovo procuratore con un abile mossa scagionò gli imputati in quanto  i rapporti non erano frutto di coercizione. La vittoria diede forza a coloro che chiedevano una maggiore libertà sessuale. Il 2 dicembre 1978 Tom Reeves, omosessuale impegnato nelle lotte civili e sostenitore del libero amore, durante il convegno "Man/Boy Love and the Age of Consent" inaugurò la NAMBLA. All'inizio si contavano pochissimi membri, ma in pieni anni ottanta si arrivò a circa 300 partecipanti. Ovviamente un progetto del genere non poteva che scandalizzare tutti, dagli ambienti ultraconservatori a quei pochi democratici che avevano ancora una coscienza civile ed umana. Gli ambienti culturali radicali non furono da meno e per decenni non mancarono le voci di sostegno. Il poeta Allen Ginsberg fu tra i primi che appoggiò una maggiore libertà di sessuale, anche a costo di sacrificare il benessere fisico e mentale di adolescenti e bambini. NAMBLA questo era: un movimento di omosessuali pedofili o come si volevano far chiamare "Loveboy". La maggior parte del mondo civile, ma anche dei movimenti progressisti si allontanarono fin da subito da costoro. Ad osteggiarla non vi erano solo gruppi religiosi e istituzionali, ma anche lo stesso movimento gay ostracizzò le iniziative del NAMBLA. Nonostante il mondo gay in un primo momenti li supportasse, ILGA (International Lesbian and Gay Association) e molte altre organizzazioni iniziarono ad accusarla di dare una cattiva immagine del movimento omosessuale. Infatti in molti casi i gay erano associati a pedofili anche quando costoro non avevano impulsi del genere. ILGA venne multata e sospesa dal far parte delle organizzazioni sostenute dall'ONU fino a quando nel 1994 non sancì definitivamente la separazione con il partito dei pedofili. I processi giudiziari furono all'ordine del giorno. Alcuni membri di NAMBLA furono arrestati per possesso di materiale pedo - pornografico e per aver avuto atti sessuali con minori. Nel 2000 la famiglia Curley fece causa alla NAMBLA perché gli assassini di loro figlio, ucciso nel 1997, erano membri di questa organizzazione. Charles Jaynes e Salvatore Sicari (questi sono i nomi degli assassini), omosessuali radicali, scattarono delle foto e torturano il piccolo Jeffrey per poi pubblicare queste immagini su un sito pedo - pornografico, legato a NAMBLA. A difenderla scese in capo ACLU (American Civil Liberties Union) la quale parlò di un movimento che pur difendendo un comportamento illegale non insegnava a praticarlo. Inoltre la causa indetta dai Curley era da ritenersi come una richiesta di limitazione della libertà di parola: una motivazione altamente assurda. Su pressione di questa organizzazione nel 2008 si decise di far cadere il processo con la motivazione che alcuni testimoni non erano in grado di dare una testimonianza oggettiva dei fatti. Qualche anno prima, nel 2005, la NAMBLA venne scossa da uno scandalo a livello internazionale. Alcuni suoi affiliati (tra i quali un pastore protestante ed un prete cattolico) furono arrestati perché gestivano una rete pedo - pornografica, legata al simbolo dell'associazione, e un fenomeno molto preoccupante: il turismo sessuale. Organizzavano viaggi in Messico per visitare e usufruire della compagnia di ragazzi del luogo costretti a prostituirsi. Per fortuna le campagne per la lotta alla pedofilia hanno estromesso NAMBLA da ogni contesto politico e culturale e si attende la decisione ufficiale delle autorità per chiudere definitivamente questo pericolo sociale. 

lunedì 18 giugno 2012

L'antisemita Stalin

Quello che si dice su Stalin e sul suo rapporto con gli ebrei è non tutto frutto dei fatti e quindi della verità storica. Nei libri scolastici spesso viene nascosta quella che molti hanno definito la stessa mattia che colpì Hitler: l'antisemitismo. Il Fuher quindi non sarebbe stato il solo a tramare contro gli ebrei e ad addossare la responsabilità di molti mali a questi. Stalin è stato definito il degno omologo di Hitler. Il 13 gennaio 1953 sulla Pravda uscì una notizia sconvolgente: nove medici del Cremlino erano stati incarcerati e condannati per aver ucciso Zdanov e Scerbakov e attentato alla vita di Stalin stesso. Sei di loro erano ebrei e si giudicò "nemici del popolo" gli ebrei sionisti e amici degli americani che, secondo l'articolo, avevano commissionato gli attentati. In realtà questo è solo uno dei tanti esempi di antisemitismo che lo stesso Stalin dimostrò nel corso della sua vita, spesso per accusare ed eliminare la vecchia guardia bolscevica in maggioranza ebrea o comunque i suoi nemici di partito. Josef Stalin fu sempre un antisemita. Suo padre, ubriacone e sperperatore del patrimonio familiare, fu costretto a vendere tutti i suoi beni a diversi banchi di pegni, tutti gestiti da ebrei. I genitori, devoti cristiani ortodossi, non tardarono a dare un immagine cattiva e pregiudiziale del popolo ebraico, come di genti corruttrici e dediti all'usura. Gli ebrei nella scala sociale georgiana costituivano l'ultimo gradino, come in Russia. Allo stesso modo i georgiani nel cuore della Russia zarista erano gli ultimi della scala sociale. Stalin dimostrò sempre una grande ambizione nel dimostrarsi un vero Russo: questa spinta nazionalista non decadde neanche quando entrò nelle prime formazioni comuniste. Ecco perché fu sempre contrapposto a Lenin e a Trozkij, accesi internazionalisti. Gli stessi ebrei erano per lui delle persone interessate di più ai scopi internazionali e poco propensi ad accettare il concetto di Nazione. Essendo inoltre poco malleabili dal punto di vista ideologico, costituivano un grosso ostacolo. Questa tendenza prettamente nazionalista si manifestò quando nel 1923 firmò il progetto del "Socialismo in un solo Paese", dichiarando di fatto la fine dell'internazionalismo sovietico.
La sua anima antisemita venne ulteriormente plasmata durante il suo soggiorno nel seminario di Tbilisi, dove le idee antisemite erano all'ordine del giorno. Non mancavano neanche le voci di complotti giudaici contro la nazione e l'intero popolo cristiano. Durante la rivoluzione e i primi anni del bolscevismo Stalin non dimostrò mai le sue vere idee. Solo durante gli anni venti per scalare il potere eliminò man mano i principali membri del partito, tutti esclusivamente ebrei. Dal 1948 (anno in cui fu scoperto un complotto di membri del politburo, tutti di origine ebrea) fino al 1953 furono uccisi circa 600.000 ebrei. Si verificarono anche diversi pogrom spontanei e diretti dalle autorità, specie in Polonia dove il sentimento antisemita era molto forte. In Siberia e in Kazakhstan furono allestiti diversi campi di concentramento dove gli ebrei russi, polacchi e di molte altre zone dell'URSS furono rinchiusi e condannati ai lavori forzati nonché alla morte. Il complotto dei medici fu solo il culmine di questa lunga campagna antisemita.

Buenaventura Durruti: vita e morte di un rivoluzionario buono

La breve estate dell'anarchismo durante la guerra civile spagnola vide come protagonista l'anarco - sindacalista Buenaventura Durruti. Di lui si sono dette molte cose: assassino spietato lo hanno definito i fascisti e i franchisti, eroe invece la sinistra rivoluzionaria e i movimenti anarchici. La sua figura è comunque legata alle sorti di migliaia di fascisti e simpatizzanti del movimento franchista che furono salvati dallo stesso Durruti. Le violenze dei popolari e in questo caso degli anarchici erano il frutto della rabbia incontrollata seguita al Golpe di Franco. Senza un apparato giudiziario solido e senza freni sociali e politici la popolazione si abbandonò a selvagge cacce all'uomo. Buenaventura fu tra coloro che si impegnò nel placare le violenze e i linciaggi. Salvò la vita a moltissimi uomini e ad intere famiglie. Il suo segretario, il prete cattolico Jesus Arnal Pena, descrisse Durruti come una persona retta, degna del suo rispetto pur non essendo anarchico. Pena fu colui che trascrisse la storia della Colonna Durruti. Pur essendo nato il 14 luglio 1896 a Leon, una città ed una regione altamente conservatrice, il giovane Durruti seguì i fratelli e il padre nel lavoro e nella vita politica. Erano ferrovieri e simpatizzanti delle idee anarchiche. Partecipò a dimostrazioni e scioperi che gli causarono l'esilio dalla Spagna a partire dal 1920 rifugiandosi a Parigi. Fino ai primi anni trenta Durruti viaggiò in lungo e in largo, sia in Europa che nelle Americhe. Nel 1932 rientrò in Spagna iscrivendosi alla CNT, il sindacato anarchico, e iniziò a sfidare apertamente il governo della Seconda Repubblica. Le agitazioni si susseguirono per anni accompagnati dalle manifestazioni comuniste e socialiste. Il 1936 è l'anni in cui la sinistra va al potere e Franco si ribella a quello che definiva un "complotto giudaico, massonico e bolscevico", cioè la repubblica accusata di sovvertire l'ordine tradizionale. Le due formazioni anarchiche, la CNT e la FAI (e successivamente il partito trozkista POUM), ebbero una schiacciante vittoria a Barcellona e in tutta la Catalogna, avviando di fatto quella che è definita 'utopia realizzata". Venne creata una forma di amministrazione della politica e dell'economia collettiva vicina al progetto comunista. Durruti quindi ebbe un ruolo fondamentale nel dirigere la guerra e nel gestire la cosa pubblica. La Colonna Durruti, cioè l'esercito popolare di ispirazione anarchica, era tra i più organizzati e disciplinati che ci fossero nel Fronte Popolare. Nonostante vigesse un principio di democrazia, per cui le truppe eleggevano democraticamente i loro capi, la Colonna riportò importanti vittorie. L'impegno rivoluzionario di Durruti fu molto breve. Il 20 novembre 1936 venne ucciso a Madrid. Il mistero sulla sua morte è ancora vivo e sono state proposte molte ipotesi. Gli Amici di Durruti, l'organizzazione anarchica legata alla sua figura, sostennero l'ipotesi che l'omicida fosse uno stalinista in virtù della successiva repressione dei rivoluzionari trozkisti e anarchici; altri invece propendono per un uccisione franchista. L'ipotesi dell'omicidio accidentale è stata ultimamente rivalutata e sembra essere la teoria che principalmente viene tenuta in considerazione.

Ribellione di Satsuma: la fine dei samurai

Un paese che guarda alla modernità non troverà mai tutti i suoi elementi concordi nel lasciare il vecchio mondo per quello nuovo. E' quello che accadde al Giappone nei primi anni del periodo Meiji che viene riconosciuto come il periodo di rinnovamento del paese orientale. Ancorato ancora ad una tradizione millenaria, il paese orientale si presentava agli occhi degli occidentali arretrato. Ecco perché l'imperatore Mutsuhito iniziò una politica di rinnovamento che toccava tutti i settori della cultura e delle istituzioni nipponiche. Queste riforme trovano la dura resistenza delle caste tradizionaliste, specie quella dei samurai, poco propensa ad abbandonare i propri usi e costumi. Dal 29 gennaio al 24 settembre 1877 quando i samurai del feudo di Satsuma si ribellarono alla decisione dell'imperatore di destituire questo antico ordine di guerrieri, da sempre considerati i più efficienti al mondo. Molti esponenti dei clan della provincia erano entrati a far parte del nuovo governo Meiji contribuendo a rafforzare la politica riformista con la loro tenacia. Takamori Saigo fu uno dei ministri Meiji e il primo a manifestare dubbi sul rispetto della casta samurai. La modernizzazione inevitabilmente avrebbe portato ad abolire un reggimento antiquato per le future guerre che il Giappone aveva in mente di intraprendere, specie contro la Corea. Saigo a tal proposito creò una serie di campi di addestramento dove giovani aspiranti samurai venivano allenati a questa antica arte. I ministri dell'imperatore non gradirono tali propositi volendo al contrario creare un esercito su modello di quelli occidentali. Saigo allora non nascose i suoi propositi sovversivi nei confronti di un governo che sembrava corrompere la moralità e il costume tradizionale. Per impedire tali atti di ribellione e per indagare sui piani di Saigo, il governo organizzò una spedizione di spie nel dicembre del 1876. Il piano venne scoperto e le spie imprigionate e torturate. Questo fu il casus belli: la ribellione sarebbe divampata per difendere il Giappone tradizionale da quello moderno e corruttore. La data ufficiale che segnò l'inizio della Ribellione di Satsuma fu il 30 gennaio 1877 quando la polizia imperiale fu messa in campo per requisire le armi nelle accademie di Saigo. Gli studenti al contrario non accettarono passivamente le richieste delle forze dell'ordine e cacciarono dai loro arsenali gli agenti di polizia. La prima grande battaglia che si combatte contro l'esercito imperiali fu l'assedio del castello di Kumamoto tra il 14 febbraio e il 12 aprile 1877. Il castello era uno dei più resistenti in Giappone; la guarnigione al suo interno era tra le più grandi. Gli assedianti circondarono la fortezza per diversi mesi sperando che gli assediati si arrendessero per fame. Le truppe imperiali resistettero e riuscirono anche a creare una breccia tra la cortina d'attacco per ricevere aiuti dall'esterno. Il 12 aprile i rinforzi arrivano copiosamente dalla capitale imperiale mettendo in fuga ciò che rimaneva dell'esercito ribelle, decimato dalle armi da fuoco nemiche. Contemporaneamente venne combattuta una battaglia che durò ben otto giorni. L'esercito imperiale attaccò la città di Tabaruzaka. I samurai, circa 15.000, difesero la città, ma le forze nemiche, circa 90.000, circondarono i ribelli. Per otto giorni i due eserciti si sfidarono e alla fine, presi da tutte le parti, i ribelli dovettero cedere. Saigo chiese a questo punto di negoziare una pace poiché la sua provincia era in parte occupata dalle forze imperiali: l'imperatore rifiutò ogni negoziato. Saigo fu costretto ad una lunga marcia verso le terre interne del Giappone soggetto a continui attacchi. I sopravvissuti giunsero sul Monte Shiroyama il 1° settembre e lì respinsero gli attacchi nemici. A colpi di artiglieria gli imperiali stanarono i ribelli, ma questi resistettero per giorni. Saigo fu tra le vittime illustri della battaglia insieme a molti suoi graduati. Il 24 settembre gli ultimi 40 samurai ribelli si lanciarono in un epica carica. Le mitragliatrici Gatling falciarono gli ultimi coraggiosi guerrieri nipponici. L'epoca dei samurai era terminata.

domenica 17 giugno 2012

194: libertà di scelta

194, un numero che fa solbazzare dallo sdegno gli ambienti cattolici della politica italiana. Viene definita la legge che legalizza l'omicidio, cioè l'aborto, l'interruzione spontanea della gravidanza. La 194 è la legge che tutela la donna e la gravidanza e che permette, secondo precise norme, di interrompere la gestazione. Il 21 e il 22 maggio 1978 gli italiani furono invitati a dire la loro tramite il voto su questo tema, molto caldo a livello internazionale e nazionale. Le ondate femministe a più riprese avevano chiesto di legalizzare l'aborto, una usanza che le donne da sempre praticano in maniera artigianale e sempre in pericolo di morte. Quello che si proponeva ai governi era di riconoscere la legalità di tale pratica e di istituire una normativa che lo regolasse e quindi evitare aborti in casa e pericoli per la salute della donna. Ogni donna aveva il diritto, dicevano (e dicono), di decidere liberamente se partorire o meno un figlio. Queste voci trovarono netta opposizione negli ambienti cattolici e tradizionalisti. Nessuno ha il diritto di decidere la vita di un altro. Però a conti fatti loro decidono della vita altrui. Piuttosto che lamentarsi e invoca un duro intervento del governo dovrebbero rivalutare la parola "referendum". Il referendum è un mezzo democratico per decidere sulle questioni più importanti. I progressisti lo utilizzarono nel 1978 per dare soluzione al dibattito sull'aborto. Gli italiani scelsero di dare ascolto ai progressisti e di votare a favore della legge 194. Da quel momento in poi in Italia l'aborto può essere effettuato tranquillamente e liberamente in tutti i centri ospedalieri sul suolo nazionale. Il dibattito non è ancora terminato e più voci chiedono l'abrogazione della legge. Però una cosa non si tiene in conto a mio avviso: io stesso difendo la vita e ritenendo l'aborto un gesto sbagliato, non mi permetterei di dire ad alta voce di abrogare la 194 definitivamente su due piedi perché siamo in democrazia. Il popolo italiano ha deciso di dire si alla 194 e gli ambienti cattolici non hanno accettato questo fatto. Pur essendo contrario, sono conscio del fatto che non tutti sono d'accordo con me: quindi lascio libertà di decidere. La Cina è lontana. Se si vuole proporre l'abolizione dell'aborto, si dovrebbe indire un secondo referendum dove si chiede ai cittadini di decidere se abolirlo o no. Oltre ad essere un mezzo equo, dando spazio a tutti di esprimersi, è sinonimo di democrazia. L'esito del voto è incerto e potrà andare a favore del si quanto del no. Il fattore democrazia viene spesso messo da parte. Chi riesce a sensibilizzare di più la cittadinanza vince. Questa è democrazia, questa è la vox populi che decide sul spezzare in potenza una vita o meno.

Desaparecidos di Spagna: le vittime del franchismo

Le vittime delle purghe franchiste seguite alla vittoria di Franco, secondo "Associazione per il recupero della memoria storica di Valladolid" che si occupa dall'inizio degli anni novanta di fare chiarezza sul regime franchista, sono circa 92.462. Secondo altre stime sono molte di più, un centinaio di migliaia, se si contano anche le fosse comune di recente scoperte dagli archeologi forensi. Dal 1936 al 1939 si contano le principali ondate di repressione: le esecuzioni era all'ordine del giorno e ad essere uccisi erano liberali, repubblicani, militanti di sinistra e tutti coloro che si opponevano alla crociata di Franco per la redenzione della Spagna contro quel presunto complotto giudaico - massonico - bolscevico che minacciava il prestigio della nazione. Vive nella memoria dei superstiti sono le stragi di Badajoz (agosto 1936) e di Malaga (febbraio 1937) che fecero migliaia di vittime tra uomini, donne e bambini. A queste poi vanno aggiunte le purghe che venivano attuate dalla temibile legione straniera, composta in prevalenza di soldati di origine marocchina, nelle regioni che man mano erano occupate da Franco. Il Caudillo era conscio del fatto che non bastava la semplice occupazione militare e una capillare azione di propaganda per conquistare la fiducia della popolazione. Si doveva estirpare del tutto l'anarchismo, il comunismo e il repubblicanesimo che avevano messo in crisi la borghesia cattolica e agraria che per un periodo aveva visto in pericolo i propri privilegi. I bersagli erano i militanti dei partiti del Fronte Popolare, ma  anche le loro famiglie che indirettamente erano accusate di appoggiare i familiari imprigionati. Successivamente la presa del potere le purghe man mano furono sostituite da un programma di rieducazione simile a quello sovietico o maoista. Migliaia e migliaia di prigionieri politici furono inviati in campi di detenzione, condannati ai lavori forzati. Circa 400.000 furono gli uomini inviati nei centri di detenzione sparsi per tutto il paese. Molte di queste migliaia sono desaparecidos, cioè di loro non si seppe più nulla. A loro volta i galeotti venivano smistati in varie organizzazioni come il "Patronato para la redencion de penas per el trabajo", tutte volte a organizzare il lavoro forzato per la ricostruzione del paese. Il lavoro insieme ai maltrattamenti e alle torture erano funzionali alla redenzione spirituale dei prigionieri. Accusati di ateismo e di tradimento della patria, i galeotti dovevano redimersi cristianamente tramite la fatica e il sudore. Nel 1947, secondo le voci del regime, venne chiuso l'ultimo campo di detenzione a Miranda del Ebro conclusosi il periodo della ricostruzioni. In realtà la presenza di altri centri carcerari con condizioni di esistenza pessime e con sistemi di tortura duri era più che accertata. Il regime giustificava queste violenze come opere di pacificazione e di rieducazione così come durante la guerra Franco celava le violenze dei legionari come atti di redenzione. La violenza per i franchisti era giustificata, mentre per i popolari no. La propaganda nazionalista parlava delle violenze (verificatesi, ma in altre modalità) del Fronte Popolare celando quello proprio o meglio trovando una motivazione per tale prassi. Un esempio è la repressione dei baschi dove, parlando di difesa della Spagna, vennero uccisi uomini di tutti gli indirizzi politici nonché donne, bambini e la maggior parte del clero basco che difendeva l'indipendenza di quelle zone. Stessa cosa avvenne successivamente in Catalogna per reprimere l'onda indipendentista. Nel 1952 le Nazioni Unite, in seguito alle proteste del governo repubblicano in esilio, organizzarono una missione di ispezione delle carceri spagnole. Il rapporto riferì di situazioni allarmanti e dei maltrattamenti ai danni dei prigionieri. I sospetti verso la Spagna furono effettivamente confermati. Vi era il pericolo che ancor di più il paese venisse isolato dalle relazioni internazionali. Franco si sentì minacciato da questa macchia anche in vista dei suoi rapporti appena inaugurati con Usa e Nato. Fu così che il regime carceraria venne necessariamente ridimensionato anche se le minacce di prigionia continuavano ad essere rivolte ai dissidenti.

sabato 16 giugno 2012

L'indifferenza è vigliaccheria

"L'indifferenza è vigliaccheria. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia." Questa frase non ha bisogno di presentazioni. Il suo autore è Antonio Gramsci, uno dei padri fondatori del Partito Comunista D'Italia (da non confondere con Pci). Comunista e intellettuale di un certo pregio, Gramsci fu impegnato in prima persona nelle vicende politiche e sociali del suo tempo. Ecco perché il suo invito a parteggiare nella vita per dare un senso ad essa e a non essere accusati di "indifferenza", una malattia che Gramsci definisce sociale. L'invito dell'intellettuale comunista è stato recepito? Al giorno d'oggi possiamo parlare di partigiani di qualsiasi linea politica? Possiamo rispondere a queste domande dicendo vi sono diversi approcci: l'impegnato, il generico, cioè la persona che vede tutto in generale, e l'indifferente. L'impegnato non necessita di presentazioni. Esiste un senso comune che spinge il singolo ad appoggiare idee e progetti indifferenziati, al di là del colore politico, che potrebbero dargli qualche vantaggio. Una visione della vita prettamente utilitarista. Non ci sono prese di posizione nette: comuniste, fasciste, anarchiche ecc. Troviamo solo discorsi generici sulla politica e sulla classe politica, spesso infarciti di rabbia e di sdegno verso la corruzione dilagante. Questo è il generico, cioè la persona che parteggia a seconda dei casi e dei vantaggi che può trarne. Questo male, possiamo chiamarlo così, ma che male non è nel senso vero della parola, è radicato quanto un altro di portata diversa. Stiamo parlando del disimpegnato, colui che è soggetto al reflusso, come lo hanno chiamato negli anni ottanta, o meglio all'indifferenza, che porta a negare l'impegno per il quieto vivere. Le tipiche espressioni del reflusso sono a noi note: "tutti i politici sono corrotti", "la politica la lasciamo fare a chi ne sa di più" e molte altre ancora. Espressioni che denotano un abbandono della cura di se e degli altri molto molto preoccupante. La vita viene penalizzata: non ha scopo o valore, si vive per sopravvivere. La lotta è esclusa e le emozioni e le idee ad essa connessa non si conoscono. Il disimpegno non cambia certo le cose. Lamentarsi e star fermi non agevola i buoni, ma i cattivi. Dire "la politica la lasciamo fare a chi ne sa di più" è un espediente per non provare a mettersi in gioco, perché la retorica e l'arte politica non sono innate, ma si apprendono. Non avere il coraggio di pronunciare la propria appartenenza politica o religiosa o filosofica, ad esempio, è una mancanza di coscienze dell'essere. Si ha paura del giudizio degli altri, altrettanto disimpegnati. Solo l'avere conta. Anche le scelte radicali non devono essere nascoste: dire sono fascista o comunista, cattolico o buddhista convinto, equivale a pronunciare la propria condanna a morte, a farsi definire estremista e antisociale, quando gli antisociali sono coloro che ci definiscono lontani dalla realtà. Quale realtà? Quella falsa e limpida dove la politica e i problemi sociali vengono estromessi?
A parlare è un partigiano, uno che ha deciso di parteggiare e di non vivere con le fette di prosciutto agli occhi. Gramsci, il tuo appello pochi lo hanno accolto.

giovedì 14 giugno 2012

Nazionalismo e patriottismo: due termini all'apparenza sinonimi

Patria e Nazione. Termini sinonimi, ma diversi nell'uso che ne è stato fatto. Di conseguenza patriottismo e nazionalismo, oltre ad indicare due momenti storici differenti, stanno ad indicare due ideologie contrapposte. Il patriottismo ha accompagnato i vari Risorgimenti che si sono verificati in Europa e in America. E' il desiderio di liberare, difendere e celebrare una Patria, intesa come luogo natio fisico e cultura. E' un atteggiamento che nasce in ambienti politici liberali e sociali di stampo borghesi. I primi patrioti appartenevano al mondo piccolo borghese e proprio questa classe, più dinamica e patriota, lanciò la sfida contro quei poteri che ostacolavano l'unità. In Italia il Risorgimento fu il prodotto di idee e prassi prettamente borghesi: le classi popolari o proletari (se si può parlare di proletariato in una Italia preindustriale in molti casi) erano totalmente escluse. Se si vuole parlare di un coinvolgimento del popolo minuto nelle lotte per la patria dobbiamo rifarci al proletariato urbano maggiormente più progressista e coinvolto nelle diatribe politiche. In generale le guerre per l'indipendenza non toccarono la classe proletaria. Diverso è il nazionalismo. Di solito al patriottismo, cioè alla lotta per la Patria, per la sua conquista o difesa, segue una fase nazionalistica (o di sciovinismo, una politica nazionalista particolarmente violenta), cioè un processo attraverso cui le masse vengono inquadrate nella nazione. Questa viene concepita come una comunità omogenea, i cui valori sono propri di quella cultura e compongono quel serbatoio spirituale che eleva la nazione ad un entità trascendentale. Il nazionalismo è una religione civile, come molti l'hanno definito, dove si celebrano riti atti a sacralizzare la nazione. A differenza del patriottismo, il nazionalismo punta ad elevare le masse nei processi di governo e a spingerle a esaltare la propria grandezza che deriva dall'appartenenza a quella precisa comunità nazionale. Non si vuole solo difendere e celebrare la madrepatria, ma svilupparla in grandezza e forza economica e politica. Non a caso l'imperialismo è un fenomeno che si lega particolarmente al nazionalismo.

Italiani: popolo calcistico

Gli italiani. Diceva il Duce "Italiani, popolo di Santi, Poeti e Navigatori". Una nazione neonata, ma con una storia così grande e ricca da far invidia agli antichi Stati Nazionali. Una storia e cultura unica (sorvolando sulle differenze locali) sulle quali potrebbe fondarsi una nazione prospera e stabile. Ma è davvero così? Il sogno di realizzare l'Italia Unita e un popolo unito si è realizzato? Le differenze regionali sono state amalgamate per rinascere come cultura unica? Si può dire che gli italiani sono una Nazione con la N maiuscola? La risposta è NO. All'unità territoriale non corrisponde l'unità culturale e sociale. O meglio non segue un senso culturale di Nazione. I patrioti del Risorgimento, che accolsero le idee antiche di fare dell'Italia una nazione unita, unificarono territorialmente il Paese: ma è rimasto un popolo disunito. Come diceva Le Bon gli italiani sono un popolo caotico che necessita di un bastone se vuole diventare rigido e inquadrato. Sorvolando sui retroscena dell'Unità, il Risorgimenti si può definire come un processo unitario lasciato a metà. Noi, siamo un popolo che non è mai stato veramente inquadrato in una Nazione ne la classe politica postunitaria ha mai pensato di fare un lavoro del genere. Troppo presi dai loro affari, i Savoia e i liberali hanno evitato di passare da uno sterile, ormai, patriottismo ad un nazionalismo acceso per inquadrare le masse. Sfatando Le Bon, posso dire che il filosofo francese non ha considerato la mancanza di questa politica sociale e culturale che necessita di suoi tempi. Al contrario in Germania dal patriottismo si è passati al nazionalismo in breve tempo. Dopo la lotta per l'Unità (patriottismo) si è passati a inquadrare le masse (nazionalismo) nell'idea di nazione. In Italia tutto questo non è mai successo e gli effetti si vedono ancora oggi. Mussolini si era impegnato nel forgiare l'italiano nuovo, guerriero e nazionale. Gli eventi e alcuni difetti interni al partito gli hanno negato risultati positivi. Le politiche di unità culturale del Duce hanno mirato ad eliminare i regionalismi e questo ha impedito in parte la passiva accettazione delle leggi per l'italianizzazione. Un confronto/ incontro tra regionalismi e nazione ci deve essere e deve essere proficuo. I vari movimenti separatisti, sorti tra la fine della seconda guerra mondiale e oggi, sono le prove di quanto dico. Vi sono sollo alcuni momenti quando un senso di nazione emerge negli italiani: le partite della nazionale di calcio. Solo in quei momenti (anche se in questo campo questo senso di collettività sta scemando) l'italiano avverte di trovarsi in una nazione. Siamo un popolo calcistico che solo nel calcio trova il senso di comunione.

Engels e l'antisemitismo

Non solo Marx ma anche Friedrich Engels nel 1890 si scagliò violentemente contro l'antisemitismo, pubblicando un articolo sul quotidiano socialdemocratico "Airbeiterzeitung" (Foglio dei lavoratori) intitolato "Sull'antisemitismo". L'articolo può essere semplicemente definito uno dei lavori meno riusciti del mondo marxista e dello stesso Engels sia per lo stile sia per le stesse tesi in esse espresse, frutto di una erronea analisi. Per l'economista tedesco questo atteggiamento di discriminazione era frutto sostanzialmente della reazione delle classi del mondo feudale contro il capitalismo, incarnato nella figura dell'ebreo, che stava stravolgendo i rapporti sociali. La borghesia attiva e democratica e il proletariato erano i nemici giurati di queste classi, piccola borghesia cattolica e protestante e aristocratica decaduta. Il tutto infarcito da una estetica socialista che prometteva una alternativa al capitalismo e al socialismo, progettando un sistema sociale ed economico corporativo. Al di là di ogni aspettativa l'unico modo, secondo Engels, per eliminare queste congetture non era una rivoluzione, ma assecondare lo sviluppo del capitalismo che inevitabilmente avrebbe portato alla scomparsa di queste tracce feudali e avrebbe aperto gli occhi al proletariato sulla vera essenza dell'antisemitismo.
Tali tesi sono oggettivamente sbagliate, in parte. E' vero che la figura dell'ebreo era usata come capro espiatorio per giustificare gli svantaggi del progresso, dall'altro lato però l'antisemitismo è prosperato anche in  un sistema capitalistico. Engels non aveva previsto che tali idee sarebbero fiorite anche nella nuova società democratica borghese, dove l'ebreo sarebbe stato il capro da sacrificare per purgare la società da quei mali che venivano ad essi attribuiti. Specie con il sionismo (una organizzazione culturale e politica che mirava a ottenere uno Stato ebraico in Palestina) il tema dell'ebreo nemico dei popoli acuì l'antisemitismo. In una visione marxista del mondo l'antigiudaismo, in particolare, era utilizzato per distrarre il proletariato dalle sue vere origini e dalla sua condizione nonché dal suo compito rivoluzionario. La classe borghese, specie la piccola borghesia che temeva la proletarizzazione, aveva tutti gli interessi per dividere il proletariato e ostacolare possibili minacce.

mercoledì 13 giugno 2012

Harvey Milk: un omosessuale in politica

Harvey Milk è conosciuto nell'ambiente omosessuale come uno dei primi attivisti del movimento di liberazione omosessuale che, a partire dagli anni sessanta, lotta per i diritti gay. E' noto per essere stato il primo omosessuale ad entrare in politica e a farsi eleggere nel consiglio comunale della sua città, San Francisco. Di origini lituane, Milk subì tutte le angherie che all'epoca venivano afflitte alle persone di dichiarati orientamenti omosessuali. Nato nella cittadina di Woomere, nello Stato di New York, si trasferì all'ovest, in California, San Francisco, dove si era formata una vasta comunità gay che da anni rivendicava diritti e rispetto. Nonostante il clima di ostilità che la cittadinanza dimostrava nei confronti degli abitanti di Castro Street (il quartiere gay), Milk non si arrese a queste condizioni di esistenza. Decise di impegnarsi sia socialmente che politicamente per cambiare le cose e finalmente rompere il clima di ostilità che vi era a livello nazionale contro gli omosessuali. Si candidò tre volte per entrare nel consiglio comunale e per tre volte non venne eletto. Le sue sconfitte non furono vane. I suoi elettori, in maggioranza gay, iniziarono a osannarlo come loro leader e le campagne contro l'omofobia si moltiplicarono. Milk non si arrese e decise di ricandidarsi di nuovo nel 1977. Venne eletto e fin da subito si impegnò per i diritti dei gay. In particolar modo cercò di boicottare la campagna dei conservatori contro la "Proposition 6", un disegno di legge che prevedeva il licenziamento degli insegnati che si dichiaravano omosessuali. La campagna di Milk contro tale disegno di legge diede i frutti sperati. Nel novembre del 1978 la legge venne respinta a furor di popolo. Non tutti accettarono di buon grado l'attivismo di Milk. I consiglieri conservatori tentavano di ostacolare in tutti i modi possibili il consigliere omosessuale. Specie dopo il rigetto della Proposition 6, i repubblicani più conservatori ebbero una calo di consensi e di fiducia. Un consigliere in particolare, Dan White, conservatore acceso, fu il principale ostacolo per Milk. La decisione del governo californiano di bloccare la Proposition 6 lo demoralizzò a tal punto che si dimise dal consiglio ed entrò in depressione. Durante il processo che seguì all'omicidio di Milk si disse che a muoverlo era stato appunto la sua depressione. Il 27 novembre 1978 White si introdusse nella sala consigliare e uccise a colpi di pistola Milk e il sindaco George Moscone, il quale aveva da sempre sostenuto il defunto consigliere.

V per Vendetta ovvero come una rivoluzione è fallita in partenza

Un partito di governo ultrareazionario, Norsefire; un eroe misterioso e vendicativo, V. Questi sono gli elementi principali del film V per Vendetta. In una Inghilterra del futuro un tiranno ultrareazionario governa senza freni e con il solo obiettivo di avere sempre più potere. V è l'unico che ha deciso di alzare la testa e combattere il dittatore. Sarà lui che sveglierà le coscienze intorpidite della gente e a dirigerli verso la vendetta finale. La maschera di V è divenuta il simbolo della rivolta costante contro gli oppressori per la libertà e per la democrazia. C'è stato un periodo (gli ultimi tempi del governo Berlusconi) in cui si vedevano su internet e per le strade riproduzioni di questa maschera. L'uso di questo finto volto era finalizzato a denigrare un governo che si riteneva tirannico e a sostenere una libertà che si riteneva perduta. V quindi è diventato sinonimo di rivoluzione, una rivoluzione fallita in partenza. Il cambio di guardia al governo di uno Stato non significa cambiare radicalmente il sistema. Passare da una dittatura (nel caso di Berlusconi una dittatura che solo la sinistra ha visto) alla democrazia equivale a rimanere nella stessa melma. V sa che cos'è la democrazia? Sa che è una sorta di dittatura occulta? Sa che la democrazia, almeno quella liberale, è uno sporco mezzo di oppressione del capitale? V, così come i suoi degni imitatori, non fa altro che combattere un dittatore per avviare una nuova dittatura, cioè quella di una oligarchia finanziaria. L'idea pura di democrazia, quella che ancora oggi si cerca di proporre e di costruire, è nobile e non a caso nasce in una civiltà che, pur altamente gerarchica, aveva un senso profondo di umanità, cioè la Grecia. L'individuo era un membro dello Stato e come tale aveva tutti i diritti a partecipare alla cosa pubblica. Oggi giorno un profondo sconforto serpeggia tra la massa che si è resa conto, in parte, di cosa sia la democrazia che fino a qualche tempo fa si è accettata. Il dibattito su questa forma di governo e cosa rappresenti nelle varie ideologie è lungo e molto vasto: in questo articolo evito di parlare di ciò e mi concentro sulla falsa rivoluzione che V ci insegna. V è il prototipo dell'indignato che va nelle piazze più importanti delle metropoli mondiali, occupandole e strillando la propria antipatia nei confronti di quel sistema che non gli da più quello di cui ha bisogno: sicurezza e stabilità. Costoro poi formano gruppi che parlano di rivoluzione, ma che in realtà vogliono un cambio di guardia, non una trasformazione radicale del sistema. E' una oratoria della rivoluzione ipocrita e che sostiene la democrazia borghese che ha dimostrato sempre e, ripeto, sempre la sua debolezza e le sue contraddizioni. V non fa altro che sostenere un'altra forma di dittatura dal volto buono e senza, all'inizio, limitazioni di ogni sorta. La retorica di V, che molti esaltano come la vera molla per il cambiamento, porta ad una rivoluzione fallita in partenza. Ci sono troppi maestri della rivoluzione che predicano i loro vangeli senza proporre scelte radicali ne basandosi sullo studio continuo della realtà. Sarà che sono frutto della momentanea insofferenza verso lo status quo: quando ci sarà la ripresa probabilmente le stesse voci saranno le prime a difenderle il sistema.

martedì 12 giugno 2012

Terzomondismo: lotta all'imperialismo

Le posizioni antimperialiste sono il risultato naturale del crescente imperialismo occidentale che ha assunto nel corso del tempo diverse sfaccettature. Da occupazione militare di terre si è passati ad un assoggettamento economico dei Paesi più poveri e nati dalle ex colonie europee. Con minacce economiche e di ritorsioni sul piano internazionale, gli Stati africani e asiatici vengono sfruttati e sottomessi, nel vero senso della parola, al volere dell'occidente ricco e industrializzato. L'intero mondo occidentale poggia sulle spalle del Terzo Mondo. Questo stato di sudditanza non fu accettato passivamente dai Paesi terzomondisti ne in occidente furono tutti ciechi e sordi nei confronti di questa situazione. Come ho evidenziato in alcuni miei articoli, le voci occidentali che denunciarono questa condizione furono molte: Marcuse, Peters e molti furono coloro che si schierano decisamente con il Terzo Mondo, avviando una critica serrata all'interno delle strutture occidentali.
Gli stessi Stati terzomondisti attuarono una serie di politiche volte a ostacolare le infiltrazioni occidentali e a opporsi nettamente al Primo Mondo (e in parte al Secondo Mondo). Nel 1955 al congresso di Bandung, Indonesia, la maggioranza dei Paesi sottosviluppati propose un netto "NO" alla collaborazione o a qualsiasi contatto con l'occidente. A rafforzare questo blocco, che era nato con grandi progetti, contribuì la politica nazionalista di alcuni leader africani e asiatici come Mao Zedong o il Premier egiziano Nasser. Costoro fin da subito rivendicarono la sovranità nazionali sulle loro risorse e istituzioni e si posero, i più forti, alla testa di questo movimento. In particolare le istanze del guevarismo e del maoismo garantivano indipendenza e una forte carica rivoluzionaria contro l'arroganza occidentale. Queste riflessioni politiche si rifacevano al marxismo, ma nel contempo si allontanavano da esso, combinandole istanze rivoluzionarie con un acceso nazionalismo. In Sud America il ruolo di Che Guevara fu proprio quello di estirpare dal continente i nefandi influssi del Nord America ricco e industrializzato che appoggiava regimi autoritari per rubare risorse e sopprimere ogni libertà. La spinta rivoluzionatia che il guevarismo infuse in quelle popolazioni fu enorme e ancora oggi parole quali "indipendenza e antimperialismo" sono ancora usate per denunciare il neoimperialismo economico. L'opera antimperialista di Guevara non si limitò solo al Sud America, ma anche all'Africa. Lo stesso Che partì per il Congo e altri Paesi del continente nero per sostenere la guerriglia locale. Tuttora guerriglie locali ed eserciti popolari lottano contro i propri governi, accusati di favorire le multinazionali piuttosto che il benessere della popolazione. Cuba e la Cina sono stati per anni il baluardo dell'antimperialismo. La seconda ancora oggi ricorda tali posizioni politiche e sostiene con maggior forza di prima lo sviluppo dei Paesi Africani. La sfida non è ancora finita e non finirà se il sistema economico e sociale non cambierà. L'imperialismo segue lo sviluppo del capitalismo che più cresce più darà impulso alla ricerca di materia prima e di mercati per eliminare sovrapproduzioni e far circolare il capitale.

Le Guardie di Ferro: le legioni di Codreanu

L'antigiudaismo europeo è stata la matrice essenziale di alcune forme di estremismo di destra che sono nate tra le due guerre mondiali e che hanno rivestito, in diversi ambiti, dei ruoli molto importanti. Nell'Europa dell'Est, in particolar modo, l'antigiudaismo era un atteggiamento molto diffuso sia fra le classi più abbienti sia tra alcune frange delle classi popolari. Le origini di questo comportamento sono molte e sono legate in queste zone alla tradizione cristiana. Corneliu Codreanu è stato uno degli interpreti di questa malattia sociale. Noto politico nazionalista, fondò nel 1927 la Guardia di Ferro o Legione dell'Arcangelo Gabriele (che denota l'attaccamento alla tradizione cristiana), un movimento legionario che si poneva come il difensore della Romania dagli attacchi comunisti e da quel capitalismo che era considerato uno dei mali più pericolosi. Coloro che diffondevano questi "mali" erano gli ebrei, nemici del popolo rumeno e della società civile, negatore della nazione in quanto "errante" e senza terra. Il comunismo e il capitalismo erano frutto della sua azione malvagia per distruggere i valori cristiani che davano forza e spirito al popolo rumeno. La loro era una lotta contro la modernità e tutte quelle forze progressiste che avrebbero danneggiato la tradizione. Queste istanze si rifacevano direttamente all'antigiudaismo insito nella cultura romena e ad una rigida tradizione cristiana. La massa contadina rumena, legata fortemente alla fede cristiana, era l'agente di una rivoluzione spirituale che avrebbe ridato grandezza alla Romania. Una mistica del rinnovamento che pervadeva molti Paesi europei e non. Il popolo minuto era l'unico che aveva la forza spirituale e guerriera per poter portare a compimento un rivolgimento totale della società che le avrebbe restituito la forma tradizionale.

Arno Peters e il terzomondismo radicale

Nell'occidente ricco e industrializzato le voci che si schierarono con il Terzo Mondo non mancarono di certo. Diversi movimenti laici e religioni nonché politici si schierarono apertamente con i Paesi africani, asiatici e americani più poveri. Il guevarismo e il maoismo erano riuscisti ad imporsi come le uniche dottrine politiche e sociali in grado di dare un ruolo a tali aree del pianeta. Entrambe affondavano le proprie riflessioni nella realtà economica e sociale delle aree più povere esistenti sul pianeta e garantiva un ampia gamma di successo. Il tutto condito con una forte dose di rancore verso l'imperialismo economico americano ed europeo. Al di là dei reali risultati di queste politiche, è importante valutare l'impatto culturale che il terzomondismo esercitò nel Primo Mondo. La critica radicale alla geopolitica ufficiale che vedeva l'Europa e l'America al centro del mondo portò ad costruire planisferi del tutto anticonvenzionali. Il lavoro di Arno Peters è uno di questi esempi. Storico tedesco, è stato da sempre un filantropo e studioso del Terzo Mondo per trovare soluzioni alla povertà crescente. A lui si deve la stesura di una carta geografica innovativa che prese il nome di "Proiezioni di Peters". In esso osserviamo l'Africa e il Sud America di proporzioni maggiori maggiori rispetto all'Europa o all'America settentrionale. Inevitabilmente questi continenti sono posti al centro della cartina, rivalutando in questo modo il loro ruolo. Un lavoro che non ha mai avuto grandi riscontri pratici, ma che ha benissimo spiegato quello che i terzomondisti chiedevano: una rivalutazione dei Paesi più poveri. La carta di Peters ha degli errori prettamente cartografici per cui uso risulterebbe dannoso per una ricerca o per altri usi. Il successo che riscontrò questo lavoro fu grande e duraturo e probabilmente, nonostante le imprecisioni, venne preso in considerazione solo per la sua carica rivoluzionaria. Sta di fatto che ancora oggi è studiato e analizzato mettendo da parte le forti critiche che le associazioni geografiche hanno mosso contro il lavoro di Peters.

lunedì 11 giugno 2012

"Qualcuno era comunista perché Berlinguer era una brava persona"

"Qualcuno era comunista perché Berlinguer era una brava persona" e forse era vero. Nel grande calderone politico della Prima Repubblica Berlinguer sembrava essere il paladino dell'onesta, il politico impegnato e dedito alla sua missione civile. Tutti gli altri davano l'impressione di essere corrotti e legati poteri poco puliti. In un periodo dove si evidenziavano le avvisaglie di una malattia, la corruzione, che poi mostrerà tutto il suo male agli inizi degli anni novanta, Berlinguer era l'unico che sembrava salvarsi. Il suo partito, il Pci, era l'unico, all'apparenza, che si trovava fuori da qualunque giro di tangenti e finanziamenti illeciti. L'immagine di onestà che Berlinguer era riuscito a costruirsi, gli consentiva di lanciare invettive contro la corruzione politica e morale. Nel 1977 Berlinguer lancia la questione morale, una serie di accuse contro la mala politica, che diventerà una dei punti fondamentali della propaganda del Pci. Nei confronti degli altri partiti, il partito comunista si pose come il paladino della buona politica contro la corruzione, contro l'uso improprio della politica per fini personali. Berlinguer non smise mai di porsi come un politico pulito e la sua etica divenne il metro di valutazione dell'onestà politica.
Sarà vero che Berlinguer era "una brava persona"? Qualcuno ha sollevato dei dubbi. In particolar modo hanno evidenziato come l'immagine di onestà, che Berlinguer aveva creato per se stesso e per il partito, era un velo che nascondeva una serie di finanziamenti illeciti. I Dossier Mitrokhin hanno rivelato la rete di denaro che dal Pcus veniva trasferito nelle casse del Pci. Il ricordo di Enrico Berlinguer non sembra essere stato intaccato da queste voci.

domenica 10 giugno 2012

Estado Novo!

L'Estado Novo, lo Stato Nuovo, il progetto di ogni fascismo di rigenerazione della Nazione dopo le aggressioni liberiste e comuniste. Questo termine di chiara matrice iberica è stato coniato in Portogallo e sta ad indicare il lasso di tempo che va dal 1926 al 1968. In questo frangente anche il Portogallo, secondo Stato iberico, ha conosciuto il fascismo impersonato dalla figura di Antonio De Oliveira Salazar. Nel grande calderone del fascismo, la dottrina di Salazar però è tendenziamente tradizionalista, quindi fin dalle origini lontana dalla carica rivoluzionaria del fascismo italiano. Nel 1923 avvenne il Golpe di Salazar che pose fine alla repubblica che, come in Spagna, soffriva di una forte instabilità politica. Salazar non ebbe mai il carisma di un Mussolini ne di un Hitler: come Franco era stato semplicemente appoggiato dalla borghesia conservatrice, senza esser riuscito ad accattivarsi la massa popolare. Il regime o, meglio, l'Estado Novo, era connotato da una matrice molto conservatrice. Come ho evidenziato in un altro articolo ("Dio, Patria e Famiglia o Liberi, Sociali e Nazionali") il motto "Dio, Patria e Famiglia" venne utilizzato dal dittatore per esaltare l'affinità tra la tradizione cattolica portoghese e la politica sociale intrapresa. Sostanzialmente le scelte politiche ed economiche vennero fatte rispettando i valori cattolici e la classe borghese conservatrice. Il corporativismo venne scelto come strumento per mantenere i privilegi della elitè economica portoghese e per contrastare ogni sentimento di rivalsa delle classi più povere. Ed è proprio contro i comunisti che Salazar usò la sua arma più potente per mantenere l'ordine, la polizia segreta: la PIDE. I dissidenti venivano censurati e deportati nelle ultime colonie portoghesi. Il portogallo nel 1938 firmò il Patto Anti - Comintern insieme ai Paesi dell'Asse, schierandosi di fatto con costoro. Le simpatie verso il nazismo costarono a Salazar sanzioni nel periodo postbellico, ma nonostante tutto riprese dal partito nazista la struttura e soprattutto le legioni popolari sul modello, però, dello squadrismo italiano, le Legiao Portuguesa. Come per la Spagna di Franco, anche Salazar tentò ad un certo punto di uscire dall'isolamento in cui si trovava. Nel 1949 entrò nella Nato con non poche critiche. Il dittatore aveva represso nel sangue alcune rivolte coloniali. I suoi metodi poco ortodossi costarono la vita di migliaia di persone, ma, nonostante i suoi sforzi, agli inizi degli anni sessanta fu costretto a cedere all'indipendenza di molte colonie, in particolar modo l'Angola. L'Estado Novo, come il franchismo, aveva, diciamo, salvato il Paese da una situazione di instabilità politica. Quindi dopo aver ristabilito un certo ordine Salazar si propose di riavvicinare il Paese alla democrazia. Nel fare ciò si adeguò alla democrazia organica di Franco, ma la sua opera si interruppe con la sua morte. Il suo successore, Marcello Caetano, cercò di portar a termine la sua dottrina, ma nel 1974 la Rivoluzione dei Garofani accellerò il cambiamento.