mercoledì 23 maggio 2012

La caccia alle streghe rosse


Si temeva che la potenza americana potesse essere messa in ginocchio non da attaccanti esterni, ma da infiltrati al soldo del nemico, l'Urss. Erano anni in cui i casi di arresti di spie nemiche erano frequenti e la tensione tra i due blocchi aveva generato guerre di assestamento degli equilibri politici: Rivoluzione cinese (1949) e Guerra di Corea (1950 – 1953). Si era entrati definitivamente in piena Guerra Fredda!
Dal 1945 (probabilmente molto prima) fino 1954 possiamo dire che gli Stati Uniti vissero una vera e propria caccia al comunista. Tale linea politica prese il nome di “Maccartismo” dal senatore repubblicano del Wisconsin, Joseph McCarthy, che per primo prese posizioni anticomuniste decise.
Nel 1950 il senatore McCarthy con una audizione al Senato diede il via ad una lunga ed estenuante ricerca di infiltrati non solo tra la popolazione civile, ma anche e soprattutto tra le file del governo. L'allora presidente dell'Fbi, J. Edgar Hoover, avviò un programma di inchieste condotte su tutti gli impiegati statali. Tali indagini si basavano spesso su testimonianze anonime che spesso vennero contestate dagli stessi accusati. Per cui molti di coloro che furono licenziati furono reintegrati a seguito di proteste per delle prove che non avevano certezza ne valore.
Uno dei campi d'indagine prediletti fu il mondo di Hollywood dove lavoravano attori e attrici simpatizzanti per le sinistre europee. Charlie Chaplin fu una delle principali star coinvolte nelle indagini. Tale inchiesta, oltre a causare la sua espulsione dal Paese nel 1952, gli rovinò pesantemente la carriera cinematografica pur non avendo commesso nessun crimine.
Tra i principali informatori di Hollywood troviamo Walt Disney il quale rivelò i nomi di molti simpatizzanti comunisti, ma anche lui stesso per un breve periodo fu sospettato di posizioni anti – americane. Potremmo citare moltissime celebrità accusate di filocomunismo da Gary Cooper allo scrittore Arthur Miller per passare a Marilyn Monroe, moglie di Miller, la quale chiese aiuto a J.F. Kennedy avendo un fratello collaboratore di McCarthy.
Si viveva quindi in costante tensione poiché si poteva essere sospettati di tradimento al minimo sbaglio. Uno degli scopi del Maccartismo fu quello di spingere la popolazione a denunciare le spie e a sedare ogni spirito anti – patriottico attraverso la messa in onda dei processi contro le presunte spie. I processi più celebri furono condotti contro Alger Hiss e i coniugi Julius e Ethel Rosenberg che furono condannati a morte.
Tali procedure non ebbero i frutti sperati. La popolazione reagì negativamente a ciò. Nel 1954 il Senato censurò l'attività politica di McCharty giudicandola poco efficacie e lesiva per lo spirito patriottico della Nazione. Inoltre qualche tempo prima lo stesso senatore aveva mosso delle accuse pesanti a dirigenti del Ministero della Guerra mettendolo in cattiva luce. Il senatore diede le sue dimissioni anche in seguito alla campagna stampa mossa contro di lui per denunciare le molte vite distrutte dalle sue malefatte. Nel 1957 Joseph McCharty morì per una epatite dovuta al forte alcolismo e ad una probabile schizofrenia. In realtà la censura e la morte di McCharty non segnò di fatto la fine della caccia ai comunisti. Da quando emerse dagli archivi del “Progetto Venona” gli Stati Uniti erano consci dello spionaggio nemico e del fatto che molti impiegati statali fossero spie al soldo del Blocco Sovietico. In definitiva la guerra allo spionaggio si protrasse fino alla fine della Guerra Fredda se non oltre.

Giuseppe Pinelli: assassinio di Stato o suicidio?

Ancora oggi fa eco il caso di Giuseppe Pinelli, ferroviere anarchico, morto il 15 dicembre 1969 precipitando da una finestra della questura di Milano. Da allora si parla di omicidio di Stato per motivazioni prettamente politiche. Chi era Pinelli?
Nacque nel 1928 a Milano entrando fin da subito nel mondo politico. Animatore del circolo anarchico "Ponte della Ghisolfa", combatté durante la Resistenza nella brigata anarchica "Bruzzi Malatesta". Nel secondo dopoguerra intensificò la sua attività politica prodigandosi nella diffusione dell'anarchismo e nell'appoggiare le lotte sociali e politiche. Ed è proprio nel biennio 1968 - 1969 che Pinelli si distinse come uno dei più infiammati militanti anarchici. Era il 1969, in pieno "Autunno Caldo, quando l'anarchico milanese organizzò e diresse numerosi scioperi e occupazioni operaie. In generale in tutta Italia ci furono ondate di agitazioni operaie che spesso sfociarono in guerriglia e in scontri con le forze dell'ordine. In questo clima così rovente inevitabilmente la lotta sociale si radicalizzò su entrambi i fronti. Evento emblematico del terrorismo politico è l'attentato alla Banca Nazionale dell'Agricoltura a Piazza Fontana (Milano) il 12 dicembra 1969. Tralasciando i fatti e le indagini successive, ci concentriamo sulle accuse mosse a Pinelli di aver partecipato o  organizzato l'azione terroristica. Il milanese fu tra gli 84 sospettati fermati dalla polizia. Per tre giorni Pinelli rimase in cella fino a quando il 15 dicembre venne condotto in questura dove venne interrogato da Antonino Allegra, dal commissario Luigi Calabresi, da quattro altri agenti di polizia e un ufficiale dei carabinieri. Dalla stanza interrogatori non uscì dalla porta, ma dalla finestra. Poco dopo essere entrato precipitò dal quarto piano dell'edificio. Venne soccorso, ma ormai per lui non c'era più niente da fare. Tale episodio fece scandalo, specie tra gli ambienti della sinistra extraparlamentare. Le azioni di vendetta non si fecero attendere: nel 1972 venne ucciso Luigi Calabresi ritenuto uno dei responsabili della morte di Pinelli, anche se le indagini ufficiali asseriscono la sua estraneità dai fatti. Le autorità, rappresentate dal questore Marcello Guida, affermarono che si trattò di un semplice suicidio. Il suo alibi si era rivelato falso per cui, senza via di scampo, si sarebbe gettato dalla finestra. Molti suoi conoscenti e compagni smentirono possibili pulsioni suicide del loro amico. Si riteneva infatti che avrebbe preferito scontare l'ergastolo piuttosto che togliersi la vita. Inoltre ritenevano illegale il suo fermo in quanto dopo tre giorni doveva essere o scagionato o imprigionato. Anche il fatto che il suo suicidio venne indicato come prova della sua colpevolezza venne visto come uno dei moventi che avrebbero spinto gli agenti a defenestrarlo.
La prima inchiesta sulla morte di Giuseppe Pinelli si concluse con un buco nell'acqua. I suoi amici e parenti non si arresero. Il 24 giugno 1971 la vedova Pinelli presentò una nuova denuncia e si riaprì il caso affidato al giudice Gerardo D'Ambrosio. Nell'ottobre del 1975 venne emessa la sentenza: Pinelli era morto per un malore che gli avrebbe fatto fare un balzo verso la finestra dalla quale cadde. Vennero così scagionati i quattro agenti di polizia e l'ufficiale dei carabinieri. Inoltre si accertò che Luigi Calabresi era assente dalla stanza nel momento in cui Pinelli si gettò (nel frattempo ucciso da alcuni esponenti di Lotta Continua). Le voci di dissenso non mancarono. Si sollevarono aspre critiche specie dagli ambienti di sinistra. Si mise in dubbio la testimonianza di Pasquale Valitutti, indicato dall'inchiesta come la fonte che provò l'estraneità di Calabresi dalla morte di Pinelli. L'anarchico, anche lui fermato per le stesse accuse, dichiarò di non aver visto tramite la finestra uscire nessuno dalla porta della stanza dove si trovava Pinelli. Durante le indagini si ritenne che Valitutti nei quindici minuti prima della morte dell'anarchico milanese si fosse distratto non vedendo uscire Calabresi. Tali ipotesi vennero supportate dai movimenti di estrema sinistra come "Lotta Continua", la quale era costantemente l'oggetto di indagine di Calabresi. Gli stessi organi di stampa di Lotta Continua (tra cui l'omonimo giornale) mossero alcune delle principali critiche alla versione ufficiale dei fatti. Prima di tutto ad esempio si mise in luce che i soccorsi furono chiamati prima della caduta. Oppure si scrisse che la caduta era avvenuta in verticale essendo stato buttato da altri invece di essersi lanciato fuori: in quel caso la traiettoria di caduta sarebbe stata curva. Si replicò che la caduta in verticale era dovuta al fatto che gli agenti avevano provato ad afferrarlo smorzando la spinta. Queste e altre furono i dubbi sollevati che produssero un caso politico che durò per anni con altre indagini e riesumazioni del cadavere dell'anarchico.

La (in)gloriosa storia dei comunisti italiani


IN ORIGINE

Nel 1920 Lenin ritenne opportuno che i partiti iscritti al Comintern sottoscrivessero la loro approvazione ai 20 punti, base della Terza Internazionale. In Italia tale richiesta venne accettata dal gruppo di Ordine Nuovo di Antonio Gramsci il quale si accinse a far sottoscrivere tale documento alla fazione comunista del Psi. Non ci troviamo ancora di fronte ad un partito comunista, ma già erano evidenti i primi membri del futuro Pcd'It.: Amedeo Bordiga, Antonio Gramsci, Luigi Polano, Bruno Fortichiari, Antonio Graziadei e molti altri. Tale movimento venne costituito ufficialmente il 15 ottobre del 1920 a Milano. Contemporaneamente iniziò a circolare negli ambienti socialisti la “Circolare Marabei – Graziadei” con la quale si chiedeva il cambio del nome in “Partito Socialista Comunista d'Italia”. Il gruppo di massimalisti vicino a Graziadei e a Merabei si riunì in un convegno a Imola il 28 e il 19 novembre 1920. Nonostante le polemiche si stilò una mozione (nota come “Mozione di Imola”) da presentare al XVII Congresso socialista a Livorno. In questo documento si chiedeva di aderire ai 20 punti di Lenin e quindi votare a favore dell'entrata nel Comintern e di costituire il “Partito Comunista d'Italia”. I mesi che precedettero il congresso di Livorno furono incandescenti e si decise alla fine di separarsi dal Psi se il gruppo riformista di Turati, riunito intorno al quotidiano “Concentrazione”, non avesse accettato i punti di Imola.

21 GENNAIO 1921: NASCE IL PARTITO COMUNISTA D'ITALIA

Il 21 gennaio 1921 a Livorno si svolsero nel Teatro Goldoni a Livorno le votazioni per l'approvazione della Mozione di Imola. La fazione comunista ebbe la maggioranza (57,16%). Bordiga allora dichiarò il Psi fuori dal Comintern e spinse i suoi compagni a riunirsi al Teatro San Marco per costituire il Partito Comunista d'Italia. Si ebbe quindi la cosiddetta “Scissione di Livorno”.
Nel pomeriggio del 21 gennaio venne decretato lo statuto e delineata la struttura del partito che seguiva le direttive di Lenin: quelle di un partito centralizzato e rivoluzionario. Il primo Comitato Centrale del Pcd'It. contò all'inizio 5 membri e la sede del partito venne spostata a Milano dove si trovava il quotidiano “Il Comunista” che dal 11 ottobre da bisettimanale divenne quotidiano.
Il primo segretario del nuovo partito fu Amedeo Bordiga dal 1921 al 1923. La sua guida fu fortemente carismatica e molto controversa sia nei confronti degli altri partiti, membri dell'Internazionale, sia nei riguardi di Lenin che diffidava delle posizioni astensioniste di Bordiga. La polemica nacque durante il II Congresso del Comintern a Pietrogrado nel 1920. L'economista italiano riteneva che un futuro partito proletario e rivoluzionario si tenesse fuori dal parlamentarismo e avviasse una politica di contrasto al governo democratico e borghese. Il suo astensionismo cozzava con la linea parlamentare di Gramsci e sostenuta direttamente da Lenin. Altro contrasto con il PCUS riguardò l'organizzazione del partito stesso. A differenza del partito comunista russo il Pcd'It. era si gerarchizzato, ma all'apice della piramide non vi era una dirigenza intellettuale: era per lo più composta da ex operai e operai stessi. Inoltre essendo il partito la guida della futura società, le decisioni spettavano alla sola dirigenza. Questo in poche parole fu il “centralismo organico” opposto al “centralismo democratico” di Lenin. Nel giugno del 1923 Bordiga e gli altri dirigenti del Pcd'It. furono arrestati e al suo posto venne posto alla direzione del partito Palmiro Togliatti e Angelo Tasca (1923 – 1924) e successivamente Antonio Gramsci (1924 – 1926). Nel 1926 a Lione si organizzò il III Congresso del Pcd'It. Vi presero parte Bordiga (assolto e liberato), Togliatti e molti altri dirigenti comunisti. Durante i lavori la Sinistra Comunista di Bordiga venne criticata per le loro posizioni internazionaliste e di conseguenza contro il “Socialismo in un solo Paese” di Stalin. Per cui al momento delle votazioni la direzione del partito fu affidata con la maggioranza dei voti ai “centristi” legati a Mosca. L'adesione di Bordiga al Pcd'It. fu sempre più marginalizzata fino a quando venne espulso per aver difeso nel 1930 Leone Trozkij. Nel 1924 durante le dispute interne al partito venne fondato il quotidiano “L'Unità”.

LA CLANDESTINITA' E LA NASCITA DEL PCI

Nel 1926 Bordiga e Gramsci furono arrestati dal regime fascista e condotti nell'isola di Ustica. Il partito comunista venne sciolto come il resto dei movimenti democratici e le dirigenze o furono esiliate o vissero per anni in clandestinità. L'arresto di Gramsci fu l'occasione per Togliatti di prendere le redini del partito. Il comunista sardo rimase in carcere fino al 1935, quando venne trasferito nella clinica “Quisisana” a Roma, dove morì nel 1937. Estromesso Tasca dalla dirigenza per essersi contrapposto a Stalin, il partito divenne definitivamente stalinista. Togliatti nel 1930 ratificò l'espulsione di Togliatti e della Sinistra Comunista e accettò con disprezzo l'alleanza con Giustizia e Liberta, ritenuto un movimento borghese e complice del fascismo, secondo la teoria del socialfascismo (socialdemocrazia e fascismo nascono dal capitalismo e quindi sono entrambe da combattere). Tutto ciò venne fatto in vista della creazione di un Fronte Popolare, secondo le direttive del Comintern, per opporsi all'avanzata del fascismo. Dal 1934 al 1938 Togliatti fu segretario del partito insieme a Ruggero Grieco e con lui firmò il “patto d'unità d'azione” tra socialisti e comunisti. Nel 1939 Togliatti, dopo un periodo di detenzione tedesca, dalla Francia occupata si trasferì a Mosca dove, solo, diresse le operazioni del Pcd'It.
La fuga a Mosca di Palmiro e la rottura del Patto Molotov – Ribbentrop (1940) riaccese la lotta antifascista, questa volta guidata dagli stalinisti italiani. Nel 1941 a Tolosa venne firmato di nuovo un secondo patto d'unità d'azione. Il malcontento popolare e una vasta rete di propaganda clandestina permisero a Togliatti di accendere gli animi contro il regime fascista anche grazie alle comunicazioni radiofoniche tramite Radio Mosca.
Nel 1943 l'Internazionale Comunista viene sciolta e Mussolini il 25 luglio è costretto a dimettersi. I gruppi comunisti rimasti in Italia con il consenso di Togliatti dettero vita al Partito Comunista Italiano (PCI), partito che seguì fin da subito la linea parlamentare e, eliminate le ultime correnti della Sinistra Comunista, si contrappose in blocco alla nascente Democrazia Cristiana. Nel 1944 a Salerno Togliatti, su suggerimento di Stalin, cercò un compromesso tra antifascisti, monarchici e Badoglio per la formazione di un governo di unità nazionale. Tale accordo è chiamato “Svolta di Salerno”.

DOPO LA LIBERAZIONE

Dopo la Liberazione e l'esperienza della Resistenza il Pci si diede una veste democratica e riformista. Togliatti si accinse a consolidare la nascente democrazia italiana, riuscendo nel contempo a rafforzare nei militanti e nel popolo il mito della Rivoluzione e dell'URSS. Nel 1947 il Pci entrò nel Cominform, appena nato, e sempre nello stesso anno, a maggio, Togliatti partecipò all'Assemblea Costituente che il 1° gennaio 1948 fece entrare in vigore la nuoca Costituzione Italiana. Tutto ciò nonostante il Pci fosse stato escluso dal governo durante l'amministrazione De Gasperi. Nel 1947 il Psi sciolse l'alleanza politica ed elettorale con il Pci perdendo una parte dell'elettorato. Nonostante circa 30 anni di opposizione il partito comunista registro un consenso elettorale sempre maggiore fino alla fine degli anni 70 quando venne stretto il patto di “solidarietà nazionale”. I tempi difficili non tardarono ad arrivare. Nel 1956 i rapporti con l'URSS entrarono in crisi in seguito alla Primavera di Praga, uno dei tanti episodi della rivoluzione ungherese. Tale evento segnò la messa in discussione del mito del socialismo reale e del concetto di libertà che in esso vigeva. Togliatti appoggiò la repressione sovietica segnando la fuoriuscita di un gran numero di militanti comunisti specie intellettuali con il “Manifesto dei 101”. Sempre in questo periodo il Pci imboccò la “via italiana del socialismo” che consisteva nell'abbandonare la rivoluzione e nel partecipare attivamente alla vita istituzionale del Paese. Il 21 agosto 1964 morì a Jalta Palmiro Togliatti. Prima di morire il segretario comunista stilò un memoriale, detto “Memoriale di Jalta”, dove ribadiva l'unicità del Pci nel costruire la società socialista rispetto al resto del movimento socialista. La figura di Togliatti aveva donato al partito una certa unità politica e ideologica. Nell'XI Congresso svoltosi nel 1966 videro lo scontro tra la linea politica dei “Miglioristi” di Giorgio Amendola (riformisti e democratici) e quella “Ingraiana” di Pietro Ingrao (vicina alle posizioni marxiste - leniniste). Amendola riuscì ad accattivarsi le simpatie dei delegati comunisti riuscendo a mettere in minoranza Ingrao che precedentemente godeva di grande ammirazione. Nel frattempo venne nominato segretario del partito Luigi Longo nel 1972.
In realtà le anime più forti del partito erano quelle di Ingrao e Amendola, ma Longo, essendo diretto scolaro di Togliatti, riusciva a dare una maggiore sicurezza di stabilità e di unità politica. Sostanzialmente continuò la politica di stampo nazionale del Pci schierandosi nel 1968 contro l'invasione sovietica della Cecoslovacchia.

IL MITO DI ENRICO BERLINGUER

Nel 1972 divenne segretario Enrico Berlinguer. Ex presidente della Fgci (Federazione Giovani Comunisti Italiani) divenne segretario dei comunisti all'indomani del Golpe di Pinochet in Cile. Tra le prime proposte politica del neo segretario ci fu un “Compromesso Storico” con la Democrazia Cristiana. Base di questo patto era una maggiore stabilità politica nella gestione della cosa pubblica e per aprire al governo quelle grandi forze democratiche (come il Pci) che fin dall'inizio erano state marginalizzate. Nel proporre tale patto, che avrebbe dato maggior rilievo alle fazioni di sinistra della Dc, trovò un buon esito nel gruppo vicino ad Aldo Moro.
I rapporti con l'URSS si fecero sempre più difficili. Berlinguer, oltre a difendere la democrazia, propose una nuova politica: “Eurocomunismo”. I principali partiti comunisti europei (Francese, Inglese, Spagnolo e per ultimo Inglese) si resero conto che il socialismo europeo e americano si era allontanato dai principi leninisti e aveva imboccato una linea democratica e riformista. Ecco perché nel 1977 a Madrid Berlinguer organizzò una conferenza tra i comunisti spagnoli, francesi e inglesi, per decidere come organizzare la “nuova via” del socialismo. I vari delegati riconobbero alcuni cambiamenti epocali tra i due blocchi politici e sociali: distensione politica e militare, sviluppo economico e l'idea di una lotta operaia a carattere riformista e democratico. Tale progetto durò poco a causa della diserzione del partito comunista francese che si allineò alle posizioni sovietiche e del calo elettorale dei comunisti spagnoli. Il contrasto tra Pci e Pcus si rafforzò quando nel 1981 Berlinguer dichiarò che la Rivoluzione d'Ottobre aveva esaurito la sua spinta propulsiva.
A questo periodo risalgono i dossier e le indagini su finanziamenti illeciti che il Pci ebbe dal l'URSS. Nei rapporti “Impedian”, contenuti del “Dossier Mitrokhin”, sono raccolti le testimonianze e le prove di questo traffico di soldi tra gli anni sessanta e settanta. Secondo il rapporto n. 100 del dossier nel 1971 un agente italiano del KGB, Anelito Barontini (nome in codice “Klaudio”), consegnò fece da tramite per una consegna illecita di fondi. Questo è solo un esempio dei tanti resoconti su scambi e legami segreti tra il Pci e il Pcus.

IL COMPROMESSO STORICO E IL RAPIMENTO MORO

Gli anni settanta furono segnati da forti tensioni sociali specie tra sindacati e padronato. Tale battaglie combattute in strada con scioperi e occupazioni di stabilimenti, sfociò inevitabilmente in una lotta armata. In questo clima politico così infuocato il Pci ne rimase escluso. Giorgio Amendola fu il primo a lamentarsi di questa situazione cercando forme di compromesso con altre forze moderate. Già prima del Compromesso Storico, il democristiano Ugo La Malfa nel 1977 dichiarò di voler creare un governo di coalizione con i comunisti. Tale proposta venne senza esitazione rifiutata dai democristiani e dai socialisti.
Dopo lunghi mesi di trattative, Berlinguer trovò in Aldo Moro, presidente della Dc, un valido interlocutore per poter entrare nel governo. Gli incontri tra i due leader ebbero come scopo quello di individuare delle strategie comuni, cosa che effettivamente fu molto proficua. Moro in particolare fu colui che si applicò al meglio per convincere e dirottare maggior consensi verso il progetto di Compromesso Storico. Questi era convinto che l'alleanza con il Pci avrebbe permesso di superare il periodo di crisi. Berlinguer invece individuava nel Compromesso Storico una porta per permettere al suo partito di entrare per la prima volta in un governo, anche se di coalizione. Il tutto fatto affinché si evitasse una situazione simile a quella che portò al Golpe cileno. Nel 1978 in occasione del voto di conferma del governo Andreotti, i comunisti decisero di votare a favore per creare un governo monocolore a cui successivamente avrebbe aderito il Pci.
Andreotti formò un governo con membri della Dc che erano reticenti a favorire il piano di Moro. Purtroppo le cose non andarono secondo i piani. Il 16 marzo 1978 fu rapito dalle Brigate Rosse. Dopo 55 giorni di prigionia venne ucciso dalle Br e il suo corpo venne ritrovato il 9 maggio. Berlinguer intuì che tale azione era premeditata per far saltare il compromesso.

ULTIME ORE AL TRAMONTO

Durante il sequestro Moro il Pci fu tra coloro che sostennero il fronte della fermezza contro ogni trattativa con i rapitori. La morte di Moro fu un punto critico nelle trattative tra comunisti e democristiani, segnando la totale estromissione del Pci dalle faccende pubbliche. Si può ben dire che da questo momento in poi i comunisti restarono all'opposizione nonostante nel 1978 fosse stato eletto come Presidente della Repubblica Sandro Pertini, figura gradita al Pci e che ricambiava tale simpatia. Un altro ostacolo dei comunisti fu il Psi di Bettino Craxi che in questi anni raccoglieva una grande fetta dei voti di sinistra. L'isolamento del Pci si acuì definitivamente con il famoso “pentapartito” (Dc, Psdi, Pli, Pri e Psi) che escluse del tutto i comunisti dalla partecipazione governativa. Berlinguer non si arrese. Cercò di creare nuove alleanze, specie con le nuove forze sociali che chiedevano una trasformazione sociale dell'Italia. Ecco che assistiamo al tentativo di recuperare un legame con la classe operaia scavalcando i sindacati e sostenendo le battaglie operaie, soprattutto le vertenze operaie della Fiat nel 1980. Tali campagne non diedero i risultati voluti visto che il Psi rappresentava ancora una volta di essere il partito di riferimento della sinistra.
L'11 giugno 1984 Enrico Berlinguer. La segreteria del partito passò ad Alessandro Natta. Molti videro con la morte di Berlinguer la chiave che aprì al declino del partito. Sia le vicende relative all'URSS sia i contrasti interni al partito mostravano che i tempi d'oro erano ormai finiti. Nell'aprile del 1986 al XVII Congresso nazionale del Pci Giorgio Napolitano, esponente dell'area “migliorista”, propose un gesto rivoluzionario: staccarsi dall'area comunista e approdare a quella socialista. Tale proposta fu criticata e molti dei vecchi militanti e dirigenti di partito uscirono da esso.
Nel maggio del 1988 Natta si dimise colto da un ictus. Al suo posto venne posto il suo vice, Achille Occhetto. Fu proprio costui che rilanciò l'idea di Napolitano creando quello che fu il nuovo Pci specie dopo il XVIII Congresso nazionale. Sempre nello stesso anno Occhetto creò quello che venne definito “Governo Ombra” del Pci ispirandosi allo “Shadow Cabinet” inglese per esplicitare a tutti come il Pci fosse una seria alternativa al governo d'allora.

IL DISSOLVIMENTO

Il 1989 è stato l'anno fatidico per le ultime forze che convenzionalmente erano definite comuniste. L'URSS era da decenni in crisi e con Gorbaciov si era aperta una nuova epoca con svolte liberali e volte a smantellare quel mostro decaduto che è stata l'Unione Sovietica. Il 9 novembre del 1989 il muro che divideva Berlino in due zone d'influenza (americana e sovietica) da circa 28 anni venne abbattuto. Tale gesto segnò una svolta epocale. I partiti comunisti avevano perso credibilità e i risultati elettorali erano sempre più modesti. In Italia tale crisi si avvertì in maniera maggiore visto che esso era uno dei partiti più grandi.
Il 12 novembre Achille Occhetto dichiarò presso una sezione del Pci a Bologna, la “Bolognina”, che avrebbe apportato grandi cambiamenti. In breve la proposta del segretario consisteva nel dare un nuovo volto al Pci, nome ormai scomodo dopo la caduta del Muro di Berlino, e di costituire un nuovo partito della sinistra. Tale evento prese il nome di “Svolta della Bolognina”. Non tutti accettarono questa decisione. Ingrao, Aldo Tortorella e Armando Cossutta si opposero con forza a tale progetto.
Nonostante le voci di opposizioni nel marzo del 1990 a Bologna si tenne il XIX Congresso nazionale. Due furono le mozioni proposte ai delegati. La prima che consisteva nel creare un nuovo partito democratico e riformista che venne accettata dalla maggioranza; la seconda , sostenuta di Ingrao e i veterani, prevedeva un cambio nell'organizzazione e nella politica del partito, ma non rinnegare il passato. Questa mozione venne respinta. Ci fu poi una terza proposta: costituire un partito dalla carica ideologica forte e ortodossa. La mozione venne sviluppata dal gruppo di Cossutta, ma fu respinta all'unanimità.
Nel febbraio 1991 si svolse a Rimini il XX Congresso nazionale, l'ultimo del Pci. I lavori furono volti sostanzialmente a dare un nome al nuovo partito. Dopo una serie di dibattiti e di litigi si scelse il nome del nuovo partito: Partito Democratico della Sinistra, nome proposto da Occhetto e D'Alema che ricevette il maggior numero dei voti. Il 3 febbraio del 1991 si ufficializzò la morte del Pci, rinato però sotto una serie di vesti. In pratica il Pci si era dissolto in una serie di movimenti e partiti. I Pds furono gli eredi maggiori del Pci, mentre poco tempo dopo si costituì il “Partito della Rifondazione Comunista” che raccoglieva i movimenti e gli schieramenti più ortodossi che rifiutarono di aderire al Pds. 

Perché gli anarchici sparano?


Erano gli anni che seguirono “l'autunno caldo” (1969) quando in Italia si assistette ad un periodo di terrore e di assassini con sfondo prettamente politico. Ad uccidere erano comunisti e fascisti, appartenenti a movimenti diversi e con un unica mira: lotta allo Stato borghese e alla borghesia sfruttatrice. Tale radicalizzazione non poteva essere solo un fenomeno dello spontaneismo del movimento studentesco e operaio del biennio 1968 – 1969: era la ripresa di un modo di condurre la lotta politica molto sotterranea e volta a colpire i punti forti del sistema per scatenare la rivola popolare. I comunisti o meglio il comunismo (in particolare la concezione leninista del marxismo) prevedeva una lotta aperta contro lo Stato borghese tramite un partito centralizzato che educasse e guidasse la classe operaia nella rivoluzione. Un partito d'urto, come il Pcus, che si sostituisse al sistema democratico borghese. L'anarchismo al contrario, specie quello di stampo bakuniano e necaeviano, pose come strategia il settarismo e il terrorismo. Tutto ciò con scopi ben precisi e argomenti consolidati da decenni di intenso lavoro intellettuale. Sergej Neacev, noto esponente del nichilismo russo, grande sviluppatore dell'anarchismo moderno, di fronte alla crisi dei valori e all'assenza di punti ideali di riferimento, sosteneva l'azione omicida come stimolatore dell'azione popolare: non essendoci valori, solo l'azione poteva scatenare quella violenza che, detta alla Sorel, avrebbe trasformato il mondo. Al contrario dell'idea di una elitè rivoluzionaria che, secondo Necaev, avrebbe poi continuato a stimolare la rivoluzione, gli anarchici preferirono la costituzione di cellule ideologiche e terroristiche, come teorizzato da Bakunin, con l'unico obiettivo di colpire il potere. Ed ecco i tanti morti illustri: il presidente francese Carnot, l'imperatore Guglielmo I, Umberto I ecc. Gaetano Bresci e Leon Czolgosz sono solo alcuni dei nomi di anarchici che sacrificarono la loro vita in atti terroristici. Queste azioni  non ebbero gli effetti sperati, ma anzi screditarono l'anarchismo. Allo stesso modo le cellule comuniste utilizzarono gli stessi metodi per radicalizzare la lotta sociale, non riuscendo in nulla e dando una cattiva luce al già ormai decadente comunismo italiano. Le morti furono moltissime e la loro strategia ben presto si rivelò essere inconcludente e anzi peggiorativa. Oggi, con la crisi imperante e con il malcontento verso le banche che battono cassa, sembrano essersi ricreate gli stessi fattori che scatenarono il terrorismo degli anni 60 – 70. In questi mesi gli atti terroristici contro Equitalia e alcuni suoi esponenti sono stati in parte rivendicati da membri del FAI (Federazione Anarchica Informale) e di altre cellule rivoluzionarie. Sembra un cattivo gioco del destino, ma è tutto vero. Sull'onda dello sdegno pubblico contro il sistema si sono riproposte le basi per una ulteriore ondata di terrorismo a sfondo politico.

Nicola Bombacci: un comunista in camicia nera


Chi era Nicola Bombacci? Pochi lo conoscono e solo negli ambienti del socialismo nazionale il suo nome riecheggia ancora. La damnatio memoriae, che lo ha colpito dopo la sua morte, ha avuto in parte l'effetto sperato: cancellarlo dalla storia.
Bombacci nacque a Civitella di Romagna, in provincia di Forli, il 24 ottobre del 1879. Fin da giovane età prese parte alla vita sindacale della sua regione venendo eletto nel 1911membro del consiglio Generale del Lavoro (Cgdl).
La sua grande abilità retorica, così affascinante e magnetica, lo resero famoso non solo nella sua regione, ma anche a livello nazionale. Modena fu la città dove emerse, dove strinse amicizia con Benito Mussolini, giovane socialista emiliano, dove divenne segretario della Camera del Lavoro e della Federazione Socialista e dove gli fu affidato la direzione del periodico socialista, il “Domani”.
Nel 1917, anno della Rivoluzione russa, divenne membro del consiglio di direzione del Psi. I contrasti con gli altri membri del partito non si fecero attendere. Bombacci era un convinto massimalista tanto che nel 1919 insieme a Serrati, Gennari e Salvadori fondò un gruppo socialista massimalista che al XVI Congresso Nazionale del Partito Socialista Italiano a Bologna ebbe la maggioranza dei voti divenendo la guida del partito stesso.
Nei primi anni del ventennio fece parte della delegazione italiana presso la III Internazionale e nel 1921 a Livorno fu tra i fondatori del Partito Comunista d'Italia (Pcd'It.) con Gramsci, Amedeo Bordiga, Egidio Gennari e Antonio Graziadei, divenendo poi direttore del quotidiano il “Comunista”. Sempre nello stesso anno venne rieletto deputato nella circoscrizione di Trieste.
All'interno del partito Bomabacci si astenne dai contrasti tra la linea “ordinovista” di Gramsci e quella “astensionista” di Bordiga, aderendo invece ad un progetto di Francesco Milano che prevede la costituzione di un grande partito massimalista.
Tale situazione gli causarono immediatamente l'estromissione dalla direzione del partito e nel 1923 venne espulso dal Pcd'It. essendo accusato di aver affermato durante una seduta della Camera dei Deputati una possibile congiunzione tra la rivoluzione fascista e quella sovietica.
Le sue lamentale anche presso il comitato centrale dell'Internazionale a Mosca non gli valsero il rientro nel partito. Dal 1925 Bombacci lavorò per l'ambasciata sovietica in Italia continuando la sua attività politica in proprio.
Con gli anni trenta iniziò il suo avvicinamento a Mussolini, il suo amico d'infanzia e di partito. Per una serie di difficoltà economiche fu costretto a chiedere aiuto al Duce il quale lo aiutò sovvenzionandolo e affidandogli vari incarichi. Per riconoscenza e per una grande amicizia Bombacci si convertì alla causa mussoliniana e venne posto alla direzione del periodico “La Verità”.
Nonostante la vicinanza al fascismo Bombacci non si iscrisse mai al PNF e, dopo la caduta di Mussolini, aderì con convinzione all'RSI. Nella nuova repubblica ebbe maggior campo libero e pote dedicarsi alla costruzione di un fascismo di stampo socialista e nazionalista. La sua capacità di parola lo rese celebre ben presto tra le masse proletarie parlando della degenerazione del bolscevismo e dell'avvento di un nuovo Mussolini che avrebbe realizzato l'agognato “Stato proletario”. Nel 1943 partecipò al Congresso di Verona dove, secondo alcune voci, propose il progetto della “socializzazione” dei mezzi di produzione e delle imprese che ebbe molto successo a Salò e all'estero.
I suoi sforzi per la difesa del fascismo furono vani. Era il 25 aprile del 1945 quando l'Rsi cadde sotto i colpi dei partigiani e degli Alleati. I piani di Mussolini fallirono, ma Nicola Bombacci rimase fino all'ultimo al suo fianco. Il 28 aprile del 1945 venne catturato dai partigiani e fucilato sulle rive del lago di Como e appeso per i piedi a Piazzale Loreto a Milano. Si dice che le sue ultime parole furono un elogio all'Italia e al fascismo: “Viva l'Italia! Viva il Socialismo”.